Il G.T. di Vercelli e il consenso del paziente “incapace”

Con ordinanza di data 31.05.2018 il Giudice tutelare del Tribunale di Vercelli ha deciso il caso di una persona affetta da psicosi schizofrenica e sottoposta a cure emodialitiche, con scarsa compliance alle terapie in atto, per la quale era stata richiesta la nomina di un amministratore di sostegno. Il GT, dopo aver sentito l’interessata, ha nominato il marito amministratore di sostegno, attribuendogli poteri sostitutivi nelle decisioni terapeutiche.
La motivazione del provvedimento torna sull’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 219/2017, e palesa la difficoltà del giurista italiano ad integrare sia il linguaggio che i modelli di riferimento elaborati dalla riflessione Bioetica, già valorizzati nella Carta di Nizza, nella Convenzione di Oviedo e nelle altre Convenzioni internazionali.
Tale attività ermeneutica non è stata certo facilitata dal legislatore, rimasto ancorato ai tradizionali concetti di “capacità di intendere e volere” e di “capacità di agire”, mentre le fonti di rango europeo e sovranazionale fanno invece riferimento a quelli di dignità della persona, di capacità di discernimento e di “competenza del paziente”, da accertare di volta in volta, con l’intento di valorizzarne ogni residua possibilità di partecipazione personale alle scelte di vita.
Nel modello di relazione terapeutica tracciato dai primi due articoli della legge n. 219/2017 il dialogo avviene tra due soggetti, portatori di diversi bisogni ed interessi: da un lato il paziente che chiede il rispetto della sua autodeterminazione e dall’altro il medico che deve poter fare affidamento sulla competenza a decidere del proprio interlocutore, e quindi sulla vincolatività delle scelte da lui effettuate.
Se il paziente è maggiorenne e capace di agire, sarà lui (di regola) l’interlocutore del curante, garantito dalla presunzione giuridica della sua piena “competenza” (art. 1 comma 5 l. 219/17) a decidere di sé nel rapporto di cura. Presunzione che opera fino a che ovviamente non emergano elementi così gravi da indurre il medico a dubitare di questa capacità di autodeterminazione (incapacità di fatto).
Se l’incapacità è legalmente dichiarata, nell’interazione col medico entrerà anche un terzo soggetto, il rappresentante legale, secondo lo schema normativo previsto dall’art. 3 della l. n. 219/2017 (in combinato disposto con le norme codicistiche regolanti la specifica misura di protezione ricorrente disposta nel caso concreto).
Nell’ipotesi decisa dal GT di Vercelli viene in rilievo l’amministrazione di sostegno con poteri sostitutivi, per la quale il comma quarto stabilisce che il consenso informato è espresso o rifiutato “solo” dall'amministratore di sostegno, “tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere”. Il che implica che l’amministrato sia “cosciente” e quindi conservi una, seppur modesta, capacità di discernimento.
Il successivo comma quinto (“Nel caso in  cui … l'amministratore  di  sostegno,  in assenza delle disposizioni anticipate di  trattamento  (DAT)  di  cui all'articolo 4, … rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste  siano appropriate e necessarie, la decisione e' rimessa al giudice tutelare …”) regola la diversa ipotesi di un paziente ormai “incosciente”, e quindi “muto e silente”, privo della possibilità di fornire un qualsiasi contributo nella relazione terapeutica.
Non pare, infatti, condivisibile l’interpretazione del GT quando applica il quinto comma ai pazienti coscienti, trascurando il riferimento letterale alle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), la cui efficacia è sottoposta alla condizione giuridica dell’“incapacità del paziente ad autodeterminarsi” (cfr. art. 4 comma primo). Come già si è sottolineato, nel caso di paziente privo di coscienza (come del resto per il paziente consapevole), la valutazione di appropriatezza e necessità della cura è effettuata dal medico: qualora questa sia negativa, il medico non può intervenire e nessuno può chiedergli di farlo.


Tuttavia qualsiasi atto medico, pur appropriato e necessario, può risultare in concreto non adeguato o non proporzionato in base a quella valutazione del tutto soggettiva di sé, della propria salute, del dolore e della vita che connota diversamente ogni individuo.


Ogni persona, come rammenta il primo comma dell’art. 3, conserva integri tutti i diritti e le libertà riconosciuti dall’art. 1, anche se “incapace” (“La persona  minore  di  età  o  incapace  ha   diritto   alla valorizzazione  delle  proprie  capacità  di   comprensione   e   di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all'articolo 1,  comma  1”): resta l’individuazione del “quomodo”.
Quando vi sia l’indicazione medica all’atto terapeutico perché “appropriato e necessario”, ma l’Ads lo ritenga invece contrario all’interesse dell’assistito, in base ad un giudizio di adeguatezza e proporzionalità, allora dovrà essere adito il GT, perché solo sotto il controllo giurisdizionale potrà avvenire la verifica e la ricostruzione dei fondamenti esistenziali dell’amministrato.
I criteri da seguire sono quelli da tempo fissati dalla Cassazione (sentenza n. 21748/2007 resa nel caso “Englaro”): “la rappresentanza legale non trasferisce …. un potere incondizionato di disporre della salute della persona … la rappresentanza è sottoposta ad un duplice ordine di vincoli: … agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; nella ricerca del best interest deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace , ma con” l’incapace, quindi ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi … ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”.
La diversa ipotesi di una decisione positiva dell’Ads in merito alla cura appropriata e necessaria (e quindi di una posizione parallela tra rappresentante e medico) che però trascuri la valorizzazione della situazione soggettiva e l’interesse concreto dell’amministrato non cosciente, trova rimedio nell’art. 410 c.c. comma secondo (in caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni, il controllo giudiziale può essere attivato dal PM e/o dai soggetti indicati dall’art. 406 c.c.).


In caso di paziente cosciente opera il combinato disposto dell’art. 3 comma 4 e dell’art. 410 c.c.: se l’amministrato malato conserva una (seppur modesta) possibilità di discernimento e di partecipazione alle scelte che lo riguardano, la decisione sanitaria non potrà prescindere dal suo coinvolgimento diretto e dalla valorizzazione delle sue capacità residue.
In caso di contrasto tra amministrato e Ads, qualsiasi sia il potere attribuito a quest’ultimo (di affiancamento o sostitutivo), dovrà essere adito il GT, perché è in gioco non solo la libertà fisica della persona, ma anche la sua libertà morale.


È stato giustamente sottolineato che i poteri “sostitutivi” attribuiti al rappresentante legale ineriscono al più ampio potere di cura della persona, e non ad un potere di rappresentanza in senso stretto.
Analogamente, in caso di consenso dell’Ads alle cure che esponga in concreto l’amministrato a dei rischi, e pur se lo stesso aderisca alle terapie proposte, si prevede la possibilità del controllo giudiziale.
In questo contesto normativo limitare il ricorso al GT alla ricorrenza di un contrasto “grave” tra Ads e beneficiario non pare cogliere la ratio della norma e, sul piano etico, l’impossibilità di determinare a priori la “gravità” quando le azioni coinvolgo il corpo e la libertà morale di una persona.
Semmai, in presenza di situazioni croniche l’Ads potrà, assieme ai medici e all’amministrato, procedere alla pianificazione delle cure, anche in previsione di future fasi degenerative, e sottoporre poi il progetto di cura al GT. In tal caso tutte le decisioni coerenti non necessiteranno di passaggi giudiziari ulteriori, salva sempre la valutazione della situazione concreta del malato.
Non vi è dubbio, infatti, che anche l’art. 5 si applichi all’incapace. Inoltre l’art. 2 della legge n. 219/17 richiama la legge n. 38/2010 che prevede un “programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia” per l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore.

 

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