Protezione internazionale e protezione umanitaria secondo la Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 29053/2019, si è occupata dell’istituto della protezione internazionale (introdotto in Europa dalla Direttiva 2004/83/CE recepita in Italia con il d. lgs. n. 251/2017, successivamente modificata dalla Direttiva 2011/95/UU recepita in Italia con il d. lgs. n. 18/2014) e del permesso di soggiorno per motivi umanitari previsto dall’art. 5 co. 6 e dall’art. 19 co. 1 del D. Lgs. n. 286/1998.

La tematica della protezione internazionale riguarda, da un lato, lo status di rifugiato definito dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Rifugiato è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

Dall’altro, è ammessa dall’ordinamento una protezione sussidiaria, per il cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato, ma nei cui confronti esistono fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, e non può o non vuole (a causa di tale rischio) avvalersi della protezione di detto paese.

Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza.

La protezione umanitaria è, invece, una misura di protezione “residuale”, per chi non ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato o alla protezione sussidiaria, ma che, al ricorrere di condizioni oggettive e di gravi situazioni personali, non può essere allontanato dal territorio Italiano, avendo, quindi, diritto ad ottenere il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno della durata di due anni “per motivi umanitari”. I “seri motivi” di carattere umanitario che fondano il rilascio di tale misura sono, ad esempio: motivi di salute o di età, essere vittima di situazioni di grave instabilità politica o di episodi di violenza o di insufficiente rispetto dei diritti umani, essere vittima di carestie o disastri ambientali o naturali.

La questione giunta all’attenzione della Cassazione riguarda un cittadino del Bangladesh che si era rivolto alla Commissione territoriale di Milano affermando di aver lasciato il suo paese per le condizioni di estrema povertà in cui si trovava, di aver contratto un mutuo molto gravoso e di aver frequentato in Italia un corso propedeutico all’apprendimento della lingua italiana. Su questi presupposti aveva, quindi, chiesto il riconoscimento della protezione internazionale nelle forme, appunto, dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o in subordine della protezione umanitaria.

La Commissione territoriale aveva emesso un provvedimento di diniego, impugnato avanti al Tribunale di Milano, che aveva a sua volta rigettato la domanda. Anche l’appello proposto non era stato accolto.

La Cassazione con la decisione in commento ha rigettato, infine, il ricorso.

La Corte ha anzitutto precisato che la “condizione di povertà” per la quale il ricorrente deduceva di aver lasciato il Bangladesh non può considerarsi in sé una forma di persecuzione. Gli atti persecutori consistono, infatti, in atti di violenza psicofisica, provvedimenti discriminatori, denegata tutela giurisdizionale per motivi riconducibili all’appartenenza ad un’etnia, ad un’associazione, ad un credo politico o religioso, ovvero alle tendenze e stili di vita. Già la Corte di Appello di Milano aveva rilevato come “nonostante le criticità rappresentate dallo scontro in atto tra i maggiori partiti politici, le condizioni povertà nel paese, grazie alla cooperazione internazionale, siano ridotte”.

La Cassazione ha, inoltre, ritenuto che le affermazioni del ricorrente sull’esistenza di un danno grave che avrebbe potuto derivagli dalla situazione del suo Paese fossero del tutto generiche e che, comunque, il ricorrente non aveva mai dedotto di essere “un oppositore” del regime, né specifiche “situazioni di violenza”.

Né la Corte ha considerato rilevante il fatto che le persone in Bangladesh sarebbero esposte ad altissimo rischio per le gravi violazioni dei diritti umani, in particolare ai danni persone di orientamento non rigorosamente eterosessuale ed ai danni della etnica rohingya, e perché è praticata la tortura ed è prevista la pena di morte: violazioni rispetto alle quali le autorità locali non sono in grado di assicurare un’efficace protezione.

Questo motivo di ricorso è stato ritenuto dalla Suprema Corte “inammissibile per assoluta genericità”: il richiedente “si è limitato ad esporre generiche enunciazioni sulle violazioni dei diritti umani in Bangladesh, riferite a situazioni (omosessuali, etnie minoritarie) non pertinenti al caso di specie e inconferenti con le rationes decidendi esposte dalla Corte di merito”.  Né è stato dedotto in atti un nesso causale tra le criticità del paese e la condizione soggettiva e di povertà del ricorrente.

Già peraltro la Corte D’appello di Milano aveva correttamente ricostruito la situazione individuale del richiedente, attualizzandola al momento della decisione, ed esplicitando quindi le ragioni per le quali la condizione lamentata non presentava i requisiti di speciale vulnerabilità che giustificano la concessione della protezione umanitaria.

Il mancato accoglimento nelle varie sedi giudiziarie è, quindi, sostanzialmente dipeso dalla mancata corrispondenza tra la storia personale del richiedente dedotta in atti ed i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

La Corte peraltro censura più punti la presenza di “incoerenze” nelle argomentazioni difensive (che accennano ad es. alla persistente ed attuale violazione di diritti umani in Salvador … ) “probabilmente frutto di sovrapposizione con altre situazioni”.

 

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