Atti persecutori: computo della prescrizione in ipotesi di “contestazione aperta”

IL CASO. Con sentenza 19 settembre 2018, la Corte d’appello di Napoli aveva confermato la decisione 28 gennaio 2013 del Tribunale di Avellino, che aveva condannato Sempronio per il reato di atti persecutori in danno dell’ex fidanzata Mevia, condannandolo anche al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita. 

Il capo d’imputazione faceva genericamente riferimento ad “una pluralità di condotte reiterate di molestie, anche telefoniche, di appostamenti in luoghi frequentati e pedinamenti..”, episodi collocati temporalmente in un periodo che va “dal mese di aprile 2009 con condotta tutt’ora perdurante”.

Sempronio proponeva ricorso per cassazione, deducendo, quale unico motivo di gravame, l’omessa declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, asseritamente maturata il 26 luglio 2017, prima del giudizio d’appello. 

I Giudici d’appello – infatti – secondo il ricorrente, avevano ritenuto erroneamente la condotta contestata “perdurante” sino alla data della decisione di primo grado, mentre l’ultimo degli episodi descritti nella denuncia – querela presentata da Mevia risultava risalente al 26 gennaio 2010, per cui il decorso del termine prescrizionale di anni 7 e mesi 6 doveva ritenersi maturato il 26 luglio 2017.

La decisione in commento (n. 15651/2020) dà conto di un contrasto giurisprudenziale in tema di reato di atti persecutori “a contestazione aperta”, ovvero senza specificazione del termine finale, come nel caso di specie. 

Secondo un primo orientamento, al delitto di cui all’art 612 bis c.p., che ha natura di reato abituale d’evento, non può applicarsi il principio proprio dei reati permanenti [es: invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), art 570 c.p. etc.], secondo il quale, in ipotesi di contestazione aperta, l’imputazione originaria può estendersi agli sviluppi della fattispecie emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, senza necessità di specifica contestazione. 

Al contrario – quindi - nel caso di reato di atti persecutori, gli atti cronologicamente successivi all’originario compendio accusatorio devono essere espressamente contestati per poter costituire oggetto di condanna. 

Ed invero, mentre in ipotesi di reato permanente a contestazione aperta il termine finale di consumazione coincide con la pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale, nel caso di reato abituale (art. 612 bis, art 572 c.p.) è necessario che tutti gli episodi cronologicamente succedutisi debbano costituire oggetto di contestazione e di specifico accertamento (Cass. pen. n. 15376/2019).

Un diverso filone interpretativo ritiene, invece, che anche in ipotesi di art. 612 bis c.p. il termine finale di consumazione del reato, in mancanza di specifica contestazione, coincida con quello della pronuncia di primo grado, per cui è possibile estendere il giudizio penale di responsabilità dell’imputato anche a fatti non espressamente indicati nel capo d’imputazione e, tuttavia, accertati nel corso del giudizio (Cass. pen. n. 6742/2018).

I Supremi Giudici hanno ripercorso alcuni dei canoni interpretativi più significativi del delitto in esame. 

Hanno così ribadito che l’art. 612 bis c.p. ha  natura di reato abituale di danno ed è integrato dalla necessaria reiterazione della condotta decritta nella norma incriminatrice e dal verificarsi di uno o più degli eventi pure contemplati dal legislatore; ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, ma la loro identificazione quali segmenti di una condotta unitaria causalmente orientata alla produzione dell’evento. 

Ai fini della rituale contestazione del reato de quo non è necessario che il capo d’imputazione contenga la precisa indicazione del luogo e della data del singolo episodio contestato poiché, per consentire un’adeguata difesa, è sufficiente la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e le conseguenze per la persona offesa.

Alla luce dei richiamati principi gli Ermellini hanno ritenuto rituale la contestazione del reato, così come formulata nel caso di specie, tuttavia, hanno sottolineato che, mentre nel caso del reato permanente la condotta è unitaria e senza censure temporali, per cui si risolve in un’unica azione che prosegue nel tempo ed assume valenza antigiuridica sin dal primo atto della sua esecuzione, nell’ipotesi di reato abituale rilevano singole condotte di per sé inidonee ad integrare quel determinato reato che, tuttavia, perdono la loro individualità per assumere una diversa configurazione giuridica in ragione della loro reiterazione. 

Ne consegue che, mentre nel caso di reato permanente il diritto di proporre querela può essere esercitato dall’inizio della permanenza fino ai sei mesi dalla sua cessazione, in ipotesi di atti persecutori, ove il presupposto della reiterazione si verifichi dopo che siano decorsi sei mesi dalla prima o dalle precedenti condotte, occorre necessariamente fare riferimento anche a tali più remote condotte, ancorché sia decorso il termine di 6 mesi per la proposizione della relativa querela. 

A mente dei richiamati principi, la Suprema Corte ha ritenuto non condivisibile il primo orientamento interpretativo, che prevede la necessità di una specifica contestazione di ogni singolo episodio emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale e non contemplato nell’originaria imputazione. Ove nel corso del dibattimento la persona offesa, come nel caso di specie, riferisca episodi ulteriori rispetto a quelli descritti in querela, non è necessario che vi sia una contestazione suppletiva a fronte di una “contestazione aperta”,  né può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, atteso che l’imputato ha la possibilità di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. 

Tuttavia, i Supremi Giudici hanno cassato la decisione della Corte d’appello impugnata, in quanto aveva ritenuto la condotta “perdurante” sino alla data dell’emissione della sentenza di primo grado (28 gennaio 2013), mentre nella stessa sentenza di secondo grado si dava atto dell’ultimo episodio persecutorio verificatosi alla data del 24 aprile 2010, per cui il termine prescrizionale doveva considerarsi maturato (tenuto conto di un periodo di sospensione di mesi 8 e giorni 12) il 6 luglio 2018, prima della sentenza d’appello. Sono state invece confermate le statuizioni civili in quanto non avevano costituito oggetto d’impugnazione. 

All’esito dell’articolato percorso argomentativo gli Ermellini hanno affermato: 

Al delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p., che ha natura di reato abituale, si applica il principio secondo il quale, nell’ipotesi di contestazione aperta, il giudizio penale di responsabilità dell’imputato può estendersi, senza necessità di modifica dell’imputazione originaria, agli sviluppi della fattispecie emersi dall’istruttoria dibattimentale; ciò in quanto, in ragione della complessiva unitarietà del fatto in rapporto all’evento descritto dalla norma incriminatrice, non può affermarsi che il riferimento ad ulteriori episodi operato dalla p.o. nel corso del dibattimento determini una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, tale da generare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. 
Ne segue che le condotte ulteriori, rispetto a quelle descritte nell’imputazione, non devono formare oggetto di specifica contestazione, perché si inseriscono nella sequenza criminosa integrativa dell’abitualità del reato contestato, fermo restando il principio secondo il quale il termine di prescrizione decorre dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico come accertato in dibattimento
”.
 

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