La differenza tra il delitto di atti persecutori (cd. stalking) e i reati di molestie e minacce

La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del giudice di prime cure quanto all’affermazione di responsabilità di un imputato, che ha ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 612 bis c.p., riformando la sentenza solamente con riferimento all’entità della pena.

In particolare, veniva contestato all’imputato di aver compiuto l’azione criminosa ai danni di una professionista, incaricata dal Pubblico Ministero di effettuare una consulenza psicologica sulla figlia, i cui risultati non erano stati apprezzati da quest’ultimo.

Le condotte erano consistite in due telefonate e nell’invio di vari sms, il cui contenuto non poteva avere altro significato che quello di intimidire la destinataria.

Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, censurando l’omessa riqualificazione del fatto nei più favorevoli reati di molestie e minacce, alla luce del limitato arco temporale in cui si erano svolte le condotte, della mancanza dell’elemento soggettivo e dell’assenza dell’evento di danno.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento (Cass. pen. n. 61/2019), ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando il proprio costante orientamento, secondo il quale

nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; esso, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica” (in senso conforme, Cass. Pen. n. 18999/2014, Cass. Pen. n. 39758/2017 e Cass. Pen. n. 8744/2018).

Alla luce dei principi espressi, gli Ermellini hanno ritenuto logica e priva di aporie la decisione della Corte territoriale, che aveva ritenuto la responsabilità dell’imputato per il delitto di atti persecutori, dal momento che le sue condotte erano finalizzate ad intimidire la persona offesa, la quale, infatti, aveva preferito mutare le proprie abitudini di vita, sospendendo la propria attività professionale, per timore che l’imputato potesse raggiungerla in studio.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha confermato la natura abituale di evento del reato di atti persecutori. Ciò significa che il reato si configura ogni qualvolta il colpevole agisce avendo consapevolezza che le sue condotte sono idonee ad alterare le abitudini di vita della vittima o ad ingenerare il timore per la sua incolumità.

 

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