Omogenitorialità, P.M.A. e stato civile: la Consulta si pronuncia sui diritti del genitore “intenzionale”, escludendo che l’aspirazione alla genitorialità sia un “diritto fondamentale”

23 NOVEMBRE 2020 | Filiazione e adozione | Adozione

di Giampaolo Miotto, Avvocato in Treviso

Con la sentenza n. 230/2020, pubblicata il 20 ottobre 2020, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi su una questione legata all’omogenitorialità e, specificamente, sul divieto di indicare quale genitore del figlio nato all’estero, a seguito di fecondazione medicalmente assistita, la “madre intenzionale” del medesimo, unita civilmente a quella naturale.
Tale divieto si ricava dal combinato disposto degli artt. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, regolatrice delle unioni civili, e 29, comma 2, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (come modificato dall’art. dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26), in materia di ordinamento dello stato civile.
Due donne unite civilmente avevano adìto il Tribunale ordinario di Venezia, in sede di volontaria giurisdizione, chiedendo la rettifica dell’atto di nascita del figlio di una di esse sul presupposto della dedotta illegittimità “del rifiuto opposto dall’Ufficiale dello stato civile alla loro richiesta congiunta di indicare il minore come figlio di entrambe e non della sola partoriente”, poiché questi era nato (all’estero) a seguito di una “pratica di fecondazione medicalmente assistita” avviata col consenso dell’altra.
Il Tribunale lagunare aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale delle anzidette disposizioni, dubitando del loro contrasto col disposto degli artt. 2, 3 comma primo e secondo, 30, nonché 117 primo comma Cost., in relazione all’art. 24, paragrafo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), agli artt. 8 e 14 della Convenzione CEDU, ed all’art. 2 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989.
Il Giudice remittente, in sostanza, paventava che l’” "inapplicabilità delle regole sulla genitorialità intenzionale alle coppie di donne unite civilmente «non realizz[i] il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»” (art. 2 Cost.); che le disposizioni in parola determinassero una “disparità di trattamento”  nei confronti dei “genitori intenzionali” “«basata sull’orientamento sessuale e sul reddito in quanto privilegia chi dispone dei mezzi economici non solo per concepire, ma anche per far nascere il figlio all’estero e richiedere, con ormai sicuro successo, la trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero»”.
Analoga discriminazione veniva ipotizzata nei riguardi del “nato, sul piano della sua tutela sia morale che materiale, «in considerazione delle caratteristiche della relazione tra i genitori ed in particolare se questa sia omosessuale»” (art. 3 Cost.).
Si sospettava, poi, che le disposizioni denunciate pregiudicassero “il principio di tutela della filiazione” secondo una “concezione progressista”, diretta “ad affrancarne la realizzazione dalla tradizionale dimensione naturalistico – fattuale, tutelandola come diritto pretensivo che, ove il progresso scientifico la consenta, non può essere escluso o limitato, se non in funzione di interessi che il Legislatore consideri, legittimamente, pari - ordinati»” (art. 30 Cost.).
Inoltre, secondo il Tribunale lagunare (ai fini dell’ipotizzato contrasto con l’art. 117 Cost.), le norme poste dalle suddette disposizioni contrasterebbero con le citate fonti normative sovranazionali, dalle quali si ricaverebbe “un principio internazionale definitivamente acquisito, quello per cui il matrimonio non costituisce più il discrimen nei rapporti tra genitori e figli, né per gli uni – che hanno visto riconosciuto il diritto non solo a formarsi una famiglia, ma altresì a diventare genitori, anche oltre i limiti imposti dalla natura (sterilità, identità di sesso dei partner) e comunque per effetto di una manifestazione di volontà svincolata dal dato biologico; né per gli altri, che debbono godere della medesima tutela indipendentemente dalla forma del legame tra coloro che ne assumo[no] la genitorialità»”.
E’ degno di nota che la Presidenza del Consiglio dei ministri, costituitasi nel giudizio incidentale demandato alla Consulta per contestare la fondatezza della q.l.c. testé riferita, osservava, fra l’altro, che l’“’iter argomentativo del rimettente muoverebbe «dall’assunto, del tutto apodittico e indimostrato, dell’esistenza nel sistema giuridico di un “diritto alla bigenitorialità”» e finirebbe per «esprimere unicamente e semplicemente una impostazione decisamente “adultocentrica”, lontana o che, comunque, non tiene affatto conto del principio del “best interest of the child” ovvero della necessità di adottare tra più soluzioni astrattamente possibili quella più conforme e adatta alle esigenze del minore»”.
La Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della q.l.c. delle disposizioni sottoposte al suo vaglio dal cennato ricorso.
La motivazione della sentenza prende le mosse dall’esegesi della normativa vigente in tema di P.M.A. tratteggiata dal fitto ordito intessuto dalla cospicua giurisprudenza costituzionale e (e di legittimità) sedimentatasi in materia negli ultimi anni.
Secondo il quale l’”esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è […] fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale” (Corte cost. n. 219/2019).
Ed anche sulla scorta di quanto affermato dalla Corte CEDU (sentenza 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), per cui “una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime”.
La Corte costituzionale rileva, poi, che “ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto «[d]al rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante»” (Corte cost. n. 237/2019).
Orientamento questo che, ricorda la Consulta, “in una fattispecie analoga a quella di cui al procedimento a quo”, ha trovato riscontro anche nella giurisprudenza della Cassazione civile (sentenza n. 7668/2020).

Il minimo comun denominatore di queste decisioni (ed è questo il fulcro della sentenza del giudice delle leggi) è rappresentato dal fatto che, in realtà, l’ “aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.”.

Tale inquadramento sistematico dell’”aspirazione alla genitorialità” rende compatibile col dettato degli artt. 2 e 30 Cost. “la scelta, operata dopo un ampio dibattito, dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare»”, scelta questa che “sottende l’idea, «non […] arbitraria o irrazionale»” per cui “«una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato»” (Corte cost. n. 221/2019).
Inoltre, “per quanto, poi, l’art. 30 Cost. non ponga “una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli”, tuttavia la “libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] non implica che […] possa esplicarsi senza limiti»” (Corte cost. n. 162/2014), in quanto deve essere bilanciata “con altri interessi costituzionalmente protetti: […] particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico” (Corte cost. n. 221 /2019).
Quanto, poi, al preteso “vulnus all’art. 3 Cost., è pur vero che la giurisprudenza” (Cass. civ. nn. 14878/2017 e 19599/2016) ha ammesso “il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri””, ma, nella più volte citata sentenza n. 221/2019, la Consulta aveva osservato come la “circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali” non può indurre alcun allineamento della “disciplina interna… alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia”, poiché l’omessa conformazione della prima alla seconda non implica di certo una lesione del principio di eguaglianza.
Infondati risultano, inoltre, i richiami alle varie fonti europee indicate dal Giudice remittente.
Anzitutto, “sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano in modo esplicito alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei principi ivi affermati”.
Inoltre, la “giurisprudenza della Corte EDU ha affermato in più occasioni che, nelle materie che sottendono delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; grande camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria)”, chiarendo altresì che “gli Stati non sono tenuti a registrare i dettagli del certificato di nascita di un bambino nato attraverso la maternità surrogata all’estero per stabilire la relazione legale genitore-figlio con la madre designata: l’adozione può anche servire come mezzo per riconoscere tale relazione, purché la procedura stabilita dalla legislazione nazionale ne garantisca l’attuazione tempestiva ed efficace, nel rispetto dell’interesse superiore del minore (grande camera, parere 10 aprile 2019)”.
Ed, infine, alle stesse “conclusioni deve pervenirsi con riguardo al diritto alla genitorialità di cui alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, diritto che è riconosciuto non già in termini assoluti, ma solo ove corrisponda al migliore interesse per il minore (best interest of the child)”.
La Consulta conclude il suo argomentare osservando che il “riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente” non è affatto imposto dai precetti costituzionali anzidetti, ma rimarrebbe realizzabile “per via normativa”, perché “attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre […] il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale” (Corte cost. n. 84/2016).
Anche “una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore”.
Con la precisazione per cui, secondo la pregressa giurisprudenza della Consulta, deve escludersi che “una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)»” (sentenza n. 221 del 2019).
In conclusione, la sentenza della Consulta si segnala per due fondamentali ragioni.
La prima risiede nella chiara distinzione tra diritti del minore (cui è correlato il suo best interest) ed “aspirazione alla genitorialità”, posizione giuridica quest’ ultima nella quale, a differenza dei primi, non è possibile ravvisare un “diritto fondamentale”.
Con la conseguenza che la sua disciplina è rimessa al legislatore ordinario, il cui intervento non è condizionato da precetti costituzionali specifici, pur dovendo realizzare un “bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto” che tenga conto dei mutamenti della “coscienza sociale”.
La seconda è un monito alla giurisprudenza non solo di merito che, deriva necessariamente dalla suddetta distinzione, a mantenere ben distinti i piani delle due anzidette situazione giuridiche e la necessaria recessività della seconda rispetto alla prima.
Ciò che non sempre pare di ravvisare nella giurisprudenza più recente, dalla quale emerge, a volte in modo davvero preponderante, una visione “adultocentrica” delle delicatissime problematiche legale ai temi della filiazione, connotata da una pur lodevole tensione antidiscriminatoria che a volte, tuttavia, pare sopraffare il valore supremo dell’intera materia, rappresentato da un’effettiva, prudente, previdente (e non meramente declamata) tutela del minore.

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