Il delitto di adescamento di minori al vaglio della suprema corte: una questione sull’elemento soggettivo del reato

IL CASO. Il Tribunale di Treviso condannava alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 8 di reclusione, un soggetto che – secondo l’accusa – aveva carpito la fiducia di un minore di anni sedici, promettendogli la dazione di una somma di denaro ed invitandolo a fare una passeggiata lungo il fiume. 
La Corte d’Appello di Venezia, dal canto suo, confermava integralmente l’impugnata sentenza, ritenendo che il contegno dell’imputato, durante l’incontro con la presunta vittima, fosse stato “indicativo dell’effettiva sua volontà di usare violenza sessuale al minore in questione”: donde la responsabilità del prevenuto ai sensi dell’art. 609 decies c.p. 
Detta norma, come noto, punisce la condotta di colui che – salvo il fatto non costituisca più grave reato – adeschi un minore di anni sedici, allo scopo di commettere a suo danno un delitto a sfondo sessuale o di riduzione in schiavitù (dicesi, del resto, adescamento un qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifizi, lusinghe o minacce, posti in essere anche attraverso internet od altro mezzo di comunicazione).
Adita la Suprema Corte di Cassazione, l’imputato censurava la violazione, da parte dei giudici di merito, della legge penale sostanziale - ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. - nonché la mancanza, la contraddittorietà e l’illogicità manifesta della motivazione dell’impugnata sentenza - ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. - per quel che attiene alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. 
Secondo il ricorrente, infatti, le corti territoriali avevano inferito la sussistenza del dolo del delitto in oggetto unicamente sulla scorta della “ritenuta singolarità delle modalità di approccio dell’uomo tenute nei confronti del minore, senza che [vi fosse] stato un qualche esplicito riferimento ad un possibile contenuto sessuale di tale approccio”.
LA DECISIONE. Nell’accogliere le doglianze dell’imputato, pervenendo ad un annullamento con rinvio della pronuncia di secondo grado, la Suprema Corte, con la sentenza n. 25431/2020, muove da una ricostruzione sistematica degli elementi costitutivi della fattispecie in commento.
Sotto il profilo oggettivo, infatti, il delitto di adescamento di minorenni tratteggia un tipico reato c.d. ostacolo, finalizzato ad approntare una tutela anticipata ai beni giuridici della libertà o comunque dell’intangibilità sessuale della giovane vittima: la ratio della norma incriminatrice è, appunto, quella di scongiurare la commissione dei reati c.d. fine contemplati dalla norma stessa.
Il delitto di adescamento di minorenni sussiste, pertanto, solamente laddove la condotta del reo non abbia raggiunto un grado di sviluppo tale da integrare (neppure nella forma tentata) uno di quei reati che la fattispecie medesima mira a prevenire: diversamente, l’azione sussumibile sotto l’art. 609 undecies c.p. verrebbe, infatti, assorbita – quale ante factum non punibile – nel perpetrato delitto sessuale (anche se interrottosi al mero stadio del tentativo).
Va da sé come, in omaggio al c.d. principio di offensività, non possa assumere rilevanza penale qualsivoglia ipotesi di adescamento: la fattispecie in esame mira, infatti, a reprimere solamente quei comportamenti che abbiano “la finalità di consentire, o quantomeno facilitare, la divisata realizzazione di una delle condotte criminose specificamente elencate dalla norma ora in questione”.
La sussunzione della fattispecie concreta sotto quella astratta – la quale tratteggia un tipico reato c.d. a dolo specifico - postula, pertanto, il compimento di una duplice indagine in merito all’elemento soggettivo del delitto:

Osserva il Collegio che, sotto il profilo del dolo, necessario ai fini della integrazione del reato ascritto al prevenuto, questo presenta, riguardo alla contestata imputazione, una struttura più articolata dell’ordinario. Esso, infatti, non deve avere ad oggetto solamente l’attività di adescamento del minore, volta a carpirne, come espressamente precisato dalla norma sanzionatoria, la fiducia attraverso attività consistenti in artifici, lusinghe o minacce poste in essere anche tramite l’utilizzo della rete internet o altre reti o mezzi di comunicazione, ma deve riguardare anche la finalità specifiche cui siffatto adescamento è strumentale, cioè la perpetrazione in danno del minore stesso di uno dei reati specificamente elencati nella parte iniziale dell’art. 609 undecies c.p.”.

Una indagine siffatta, ad avviso della Corte di legittimità, appare del tutto carente nel caso di specie. I Giudici di merito hanno, infatti, desunto la sussistenza del dolo del reato in oggetto basandosi unicamente sul fatto che l’imputato avesse sottolineato come il minore approcciato avesse già maturato “lo sviluppo”.
Tale condotta, chiosa la Suprema Corte, appare destituita di quella “specifica significatività”, suscettibile di acclarare l’intento del soggetto agente di perpetrare un delitto a sfondo sessuale.
La tesi appare, inoltre, confermata qualora si consideri che l’imputato aveva profferito tale commento notando che la bicicletta utilizzata dalla giovane vittima fosse stata oramai inadeguata, attesa la struttura fisica del minore. 
Il soggetto agente, come notato dagli stessi giudici di merito, aveva, del resto, adoperato “parole evasive” ed equivoche: un atteggiamento siffatto, “non troppo esplicito nel manifestare lo scopo sessuale del prospettato incontro” non era stato, tuttavia, ritenuto dalle corti territoriali “ostativo alla riconducibilità di tale finalità”.
Donde la carenza motivazionale dell’impugnata sentenza: un difetto di tal genere, chiosa la Corte, non risulta emendabile nemmeno con riferimento alla sussistenza in campo all’imputato di un precedente penale specifico, il cui collegamento con i fatti di causa non era mai stato dimostrato.

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