Misure cautelari a tutela della vittima di violenza domestica: tra principio di adeguatezza ed interesse ad impugnare

IL CASO. Convalidata la misura precautelare di cui all’art. 384 bis c.p.p. (allontanamento d’urgenza dalla casa familiare), eseguita dalla Polizia Giudiziaria nei confronti di Caio colto nella flagranza del delitto di lesioni personali, aggravate in quanto commesse in danno del coniuge (artt. 582, 585, comma 1 e 577, comma 1, n. 1, c.p.), il Giudice per le indagini preliminari di Milano applicava all’indagato la misura coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare, con l’annesso divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima (art. 282 bis, commi 1 e 2, c.p.p.). 

Nella stessa sede, il Giudice cautelare rigettava, tuttavia, la richiesta della Procura di disporre la predetta cautela unitamente alla misura di cui all’art. 282 ter c.p.p. (che, a sua volta, contempla il divieto di avvicinarsi tanto alla persona offesa ed ai suoi prossimi congiunti, quanto ai luoghi da essi frequentati, oltre a quello di comunicare con costoro). 

La decisione veniva confermata dal Tribunale del riesame, adito dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 310 c.p.p.

In entrambe le sedi, la mancata applicazione del divieto di avvicinamento ex art. 282 ter c.p.p. veniva motivata avendo riguardo alla circostanza che la pena prevista per il reato di lesioni personali lievi (da sei mesi a tre anni, aumentata fino ad un terzo per effetto della circostanza aggravante) non consente di disporre alcuna coercizione, se non quella di cui all’art. 282 bis c.p.p. (ed invero, l’art. 282 bis, comma 6, c.p.p., sancisce l’applicabilità dell’allontanamento dalla casa familiare ove si proceda per uno dei reati riconducibili al fenomeno della violenza c.d. di genere, anche se puniti con una pena inferiore ai limiti cui l’art. 280 c.p.p. subordina l’adozione di misure coercitive).   

Proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, lamentando un’erronea applicazione della legge processuale. 

Secondo il ricorrente, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere, infatti, applicata anche la misura negletta. 

L’indagato era stato, invero, raggiunto da un allontanamento urgente dalla casa familiare (misura assimilabile all’arresto in flagranza sotto il profilo tanto genetico, quanto dell’iter di convalida, atteso il richiamo agli artt. 385 c.p.p. e ss. effettuato dall’art. 384 bis, comma 2, c.p.p.). 

Per tale ragione, i Giudici di merito avrebbero dovuto considerare il disposto dell’art. 391, comma 5, c.p.p.: detta norma, in caso di arresto eseguito per uno dei delitti contemplati dall’art. 381, comma 2, c.p.p. (tra cui rientrano le lesioni personali), ammette, infatti, l’applicazione di qualsivoglia misura coercitiva (ivi compresa la custodia carceraria) anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p.

Tale paradigma normativo, a detta del Procuratore ricorrente, avrebbe dovuto trovare applicazione anche nell’ipotesi in oggetto, ove la Polizia Giudiziaria, in luogo di un arresto in flagranza, aveva eseguito un allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, attesa la sussistenza di una eadem ratio di disciplina. 

Si poneva, infatti, l’esigenza di garantire la massima tutela possibile alla vittima del reato, atteso che, in caso di caducazione dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.), sarebbero venute meno anche le prescrizioni accessorie alla misura suddetta (e.g. il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ai sensi dell’art. 282 bis, comma 2, c.p.p.): tale rischio, al contrario, sarebbe stato scongiurato dall’applicazione congiunta delle misure di cui agli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p.

LA DECISIONE. Nel dichiarare inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso presentato dal Pubblico Ministero milanese, il Supremo Consesso, con la sentenza n. 12503/2020, coglie l’occasione per tracciare un’actio finium regundorum tra le fattispecie cautelari in commento. 

La coercizione tratteggiata dall’art. 282 bis c.p.p. non presuppone “la condizione di abitazione ‘attuale’ dei coniugi, ma l’esistenza di una situazione – che non deve necessariamente verificarsi all’interno della casa coniugale – per cui all’interno di una relazione familiare si manifestano condotte in grado di minacciare l’incolumità della persona”, per cui ne consegue “la delimitazione dell’ambito oggettivo della misura in esame a fattispecie di reato verificatesi all’interno di una relazione familiare”.

Sotto il profilo strutturale, il Supremo Consesso rileva come il provvedimento in analisi presenti un contenuto minimo – consistente, appunto, nella prescrizione di lasciare la casa familiare o di non farvi rientro senza l’autorizzazione del giudice – ed uno eventuale, che consente all’autorità giudiziaria di vietare all’indagato di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ove si configuri l’esigenza di tutelare l’incolumità di costei e dei suoi prossimi congiunti.

Quest’ultima “prescrizione facoltativa”, chiosano i Giudici di Piazza Cavour, “che nel caso di specie è stata specificamente adottata dal giudice per le indagini preliminari, coincide per la gran parte con il contenuto precettivo della misura cautelare di cui all’art. 282 ter c.p.p.”. 

In quest’ultima ipotesi, il fulcro della cautela non è più, infatti, la casa familiare, bensì la persona offesa e la sfera dei suoi affetti: con riferimento a tale cerchia d’individui, il giudice può modulare divieti di avvicinamento tanto ai luoghi, quanto alle persone fisiche, impartendo, altresì, all’occorrenza, divieti di comunicazione.

La fattispecie di cui all’art. 282 ter c.p.p. persegue, infatti, l’intento “di creare uno schermo di protezione attorno all’offeso, modulabile in base alle esigenze del caso concreto. A differenza della misura precedente non trova limitazioni di sorta nella tipologia relazionale da cui scaturisce il reato. Evidente che il presupposto ‘negativo’ di questa misura, in rapporto di alternatività rispetto alla precedente […] è l’assenza di una situazione che renda necessario, prima di tutto, allontanare l’autore del reato dalla casa familiare”.

Accolto dalla dottrina, all’epoca della sua introduzione, quale pendant processuale del delitto di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), la misura in esame presenta molteplici valenze, potendo essere applicata non soltanto per tutelare l’incolumità della persona offesa, ma anche (come accade nell’ordinamento inglese) allo scopo di prevenire possibili rischi d’inquinamento probatorio.

Per quel che attiene, invece, all’applicazione congiunta delle misure ed alla derogabilità, nel caso di specie, dei limiti edittali di cui all’art. 280 c.p.p., la soluzione rimane aperta.

La novella apportata dalla legge n. 47 del 2015 ha, infatti, esteso la cumulabilità dei provvedimenti cautelari oltre alle ipotesi inizialmente contemplate dal legislatore: tali erano la trasgressione delle prescrizioni imposte (art. 276 c.p.p.) e la scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare (art. 307, comma 1 bis, c.p.p.).

La combinazione delle misure dev’essere, oggigiorno, vagliata dall’Autorità giudiziaria “anche nel momento iniziale - e del tutto ‘fisiologico’ - in cui il giudice (e il pubblico ministero), è chiamato a verificare la praticabilità di ‘risposte’ cautelari gradate”.

La ratio è appunto quella di ricorrere alla custodia carceraria solamente quando le altre misure, coercitive ed interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate (art. 275, comma 3, c.p.p.).

L’applicazione congiunta delle misure cautelari serve a evitare, in un’ottica di proporzione e adeguatezza, l’imposizione di una misura più afflittiva quando le esigenze cautelari possono essere ugualmente preservate da due misure nel complesso meno cogenti, con minor sacrificio della libertà personale dell’indagato”.

Nel caso di specie, tuttavia, la genericità del ricorso proposto dal Pubblico Ministero ha precluso alla Suprema Corte di entrare nel merito delle censure mosse all’ordinanza impugnata.

Chiosa, infatti, il Giudice di legittimità: “onde manifestare un interesse concreto e attuale all’impugnazione e rispondere al requisito di specificità, il pubblico ministero, avrebbe dovuto chiarire la effettiva sussistenza nel caso concreto dei presupposti richiesti dall’art. 275 c.p.p., comma 3 e cioè indicare rispetto a quale misura cautelare alternativa più grave sarebbe stato necessario ritenere più adeguata l’applicazione congiunta dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento. Tale profilo risulta del tutto omesso. E allora il ricorso si rivela generico laddove non illustra la sussistenza nella fattispecie del presupposto di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 o, in altri termini, non precisa quali profili cautelari, nel caso concreto, restino privi di tutela a seguito dell’adozione della sola misura cautelare di cui all’art. 282 bis con le prescrizioni di cui al comma 2, sì che sarebbe stato necessario adottare una misura cautelare più afflittiva (es. divieto di dimora, obbligo di dimora) suscettibile di essere scongiurata dalla applicazione congiunta delle misure di cui agli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p.. Mentre la prospettazione della possibile caducazione di una misura cautelare e non dell’altra, oltre a riguardare un evento ipotetico (oltreché difficilmente immaginabile nella specie) non è pertinente, poiché finirebbe per giustificare sempre l’applicazione congiunta delle misure cautelari con la scusa che ove venisse meno l’una misura residuerebbe l’altra, mentre sono diversi i rimedi previsti dall’ordinamento rispetto alla evoluzione delle misure cautelari nella fase della loro esecuzione”.

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