Quando la colpa non è l’infedeltà, ma l’averla taciuta

La sentenza n. 2000/2018 del Tribunale di Torino si è occupata di un “illecito endofamiliare” davvero singolare, prospettato da un marito separato che aveva chiesto la condanna della moglie al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, ex artt. 2043 e 2059 c.c., perché, nell’ambito di una decennale relazione extraconiugale della quale egli era venuto a conoscenza solo dopo la separazione, costei aveva concepito una bambina che solo dopo la separazione ed a seguito dell’esame del DNA egli aveva appreso non essere sua figlia.

L’attore aveva identificato la condotta illecita del coniuge non già nella violazione del dovere di fedeltà, ma in “ciò che è derivato da tale infedeltà, ovvero l’aver concepito un bambino al di fuori del matrimonio, l’aver anche solo avuto il dubbio che tale creatura avrebbe potuto non essere stata concepita con il marito e nonostante ciò l’aver portato avanti la gravidanza celando tali dubbi al marito”.

A tale comportamento era ulteriormente conseguita una serie di fatti rilevanti, a dire dell’attore, sotto il profilo patrimoniale perché: a) a seguito dell’anzidetta gravidanza, l’attore si era dimesso dalla propria attività lavorativa “che lo portava spesso all’estero” per “aprire una ditta individuale, non risultata poi proficua”, con una consequenziale perdita di reddito di circa € 30.000,00; b) si era fatto carico del pagamento della quota di pertinenza della moglie del mutuo successivamente contratto per l’acquisto della casa coniugale (per € 35.000,00), di proprietà comune, ma poi assegnata alla moglie stessa, quale genitore collocatario della minore; c) era stato condannato in sede di separazione al pagamento di un assegno mensile per il mantenimento di quella che riteneva essere sua figlia, ma non lo era; d) si era inoltre onerato del canone di locazione per l’alloggio locato dopo la separazione “per dare un’adeguata accoglienza” alla figlia.

Egli chiedeva quindi il risarcimento di detti danni, oltre a quelli non patrimoniali, di cui poi si dirà nel dettaglio.

La convenuta si era difesa sostenendo “di non avere mai nutrito dubbi sul fatto che la bambina fosse figlia del marito” e di “essere rimasta sorpresa dell’esito del test del DNA” che aveva dimostrato il contrario.

Il Tribunale, dopo aver riassunto la giurisprudenza di legittimità in tema di illecito endofamiliare, ha osservato come

ciò che rileva nel caso di specie non è tanto l’infedeltà coniugale (pacifica ed incontestata), quanto piuttosto la circostanza dell’avere la convenuta portato avanti la gravidanza senza manifestare al marito la possibilità che non fosse lui il padre naturale del nascituro”.

Tale condotta avrebbe, invero, violato i diritti costituzionalmente garantiti dell’attore, quanto “alla formazione della famiglia con propri figli, inteso quale espressione della libertà di autodeterminarsi ex artt. 2, 3 e 31 Cost. con riflessi anche sul diritto alla salute, comprensivo della salute psichica, ex art. 32 Cost.”.

In questa prospettiva gravava sull’attore l’onere di provare gli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana e “in particolare [l’] elemento soggettivo della condotta (dolo o colpa)” attribuita alla convenuta.

Sotto questo profilo il Tribunale ritiene raggiunta la prova della connotazione colposa della condotta della moglie, per le seguenti ragioni:

E tuttavia, considerato che anche il preservativo può fallire come metodo contraccettivo, appare sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c. la condotta della convenuta, consistita non solo nell’aver violato l’obbligo di fedeltà, ma anche nel non essersi minimamente preoccupata della possibilità (anche se remota, ma comunque sussistente) che la figlia potesse non essere stata concepita col marito e nell’aver taciuto al coniuge di aver avuto, nel periodo del concepimento, rapporti sessuali con un altro uomo: tale condotta ha così indotto l’attore a credere di essere il padre biologico della bambina ed instaurare con essa un rapporto affettivo, unico ed esclusivo quale è il rapporto che normalmente si instaura tra un papà e la propria bambina, per poi scoprire a distanza di dieci anni di non esserne il padre naturale”.

A tale accertamento seguiva quello del danno provocato dalla condotta illecita, consistito nella lesione della “propria dignità e nel diritto di autodeterminazione con riferimento al proprio ruolo genitoriale”.

Affermata la responsabilità (colposa) della convenuta, il Tribunale ha esaminato le pretese risarcitorie dell’attore, premettendo di dover prendere in considerazione i soli “danni eziologicamente riconducibili [alla] condotta colposa attribuita alla convenuta”, non rilevando, quindi, “tutti quegli aspetti che attengono propriamente alla definizione dei rapporti tra i coniugi conseguenti al venir meno dell’affectio coniugalis, a cominciare dalla regolamentazione della comunione (ormai) ordinaria tra gli ex coniugi”.

Tra questi ultimi, secondo il Tribunale, sarebbe rientrato il pagamento delle rate del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale anche relativamente alla quota di pertinenza della moglie, poiché questo non poteva essere posto in relazione causale con l’anzidetta reticenza colposa della moglie.

Analogamente era a dirsi, per il Tribunale, del canone di locazione dell’alloggio locato dall’attore “a seguito dell’allontanamento dalla casa coniugale”, avvenuto ben prima del momento in cui egli aveva appreso i fatti di cui sopra.

Il Tribunale ha respinto anche la pretesa relativa alle perdite patrimoniali derivate all’attore per il minor reddito percepito dalla ditta individuale costituita a seguito dell’anzidetta “scelta lavorativa”, non avendo egli provato, né chiesto di provare testimonialmente, che tale scelta “era stata determinata esclusivamente dalla paternità”.

Analoga sorte ha avuto la pretesa di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali patiti per gli assegni di mantenimento della figlia corrisposti a seguito della separazione coniugale.

A questo proposito il Tribunale ha osservato che l’attore in atto di citazione aveva affermato di aver costituito con la figlia “un legame ed un vincolo che non potrà essere mai cancellato e che fa sì che per gli anni a venire padre e figlia continueranno ad avere una relazione indissolubile, con tutti gli annessi e connessi, non ultimo il profilo economico”, dichiarando altresì di non aver nessuna intenzione di promuovere l’azione di disconoscimento della sua paternità.

Una simile dichiarazione, secondo il Tribunale, rendeva irrilevante il fatto che l’azione di disconoscimento non fosse più proponibile, essendo decorso il termine di “cinque anni dal giorno della nascita” previsto a tal fine dall’art. 244 c.c., come novellato dal d. lgs. n. 154/2013, poiché essa era “ostativa al riconoscimento di tutte quelle voci di danno patrimoniale, connesse a quello status di genitore a cui lo stesso attore dichiara comunque di non avere intenzione alcuna di rinunciare”.

Cassate in tal modo tutte le pretese risarcitorie di natura patrimoniale, il Tribunale é passato ad esaminare quelle di contenuto non patrimoniale, attinenti alla “lesione di diritti di rilevanza costituzionale”.

Esclusa la sussistenza di un danno biologico di natura permanente,

il Tribunale ha ritenuto sussistente la lesione del “diritto di autodeterminazione… in ordine al proprio ruolo genitoriale”, perché, se l’attore fosse venuto a conoscenza durante la gravidanza della possibilità di non essere il padre della nascitura, “avrebbe potuto determinarsi diversamente, non instaurando con la bambina quell’intenso legame affettivo” che ebbe invece a costituire nei suoi confronti.

È ben vero che un simile legame può costituirsi “anche al di là del rapporto biologico di filiazione, si pensi all’adozione”, ma esso, nel caso specifico, venne radicato e poi coltivato sull’erroneo (ed incolpevole) presupposto che la bambina “fosse sua figlia naturale”.

Per quanto l’attore avesse riconosciuto trattarsi “di un legame ormai indissolubile”, al quale non intendeva rinunciare, secondo il Tribunale “non può non tenersi conto della sofferenza che può aver causato la scoperta della verità avvenuta tra l’altro quando la bambina aveva già dieci anni, così come della comprensibile ansia per il futuro, in relazione a quella che potrà essere la reazione della bambina il giorno in cui verrà scoprire” che colui che credeva essere suo padre non era tale.

Ritenuto quindi sussistente il danno non patrimoniale lamentato dall’attore, il Tribunale subalpino ha condannato la convenuta a risarcirlo nella misura di € 50.000,00, con gli interessi legali da computarsi sul medesimo importo devalutato alla data di nascita della bambina (7.4.2005) ed annualmente rivalutato sino alla data della sentenza, oltre che alla rifusione delle spese di lite.

Questa decisione offre molteplici spunti di riflessione, primo fra tutti quello relativo alla prova dell’illiceità della condotta della convenuta e della sua natura colposa, che il Tribunale ha ritenuto sulla base di un ragionamento tipicamente presuntivo, secondo il quale costei, avendo intrattenuto una relazione carnale con un altro uomo, avrebbe dovuto prudentemente dubitare della paternità del marito, stante che l’affidabilità solamente relativa dei sistemi contraccettivi costituisce un fatto notorio, con la conseguenza che ella avrebbe dovuto palesare l’anzidetta relazione al marito (o quantomeno sincerarsi della sua effettiva paternità).

Ancora una volta, pertanto, la prova presuntiva dimostra da un lato la sua potente forza persuasiva ai fini delle decisioni giudiziarie e dall’altro il suo misconoscimento da parte dei giudici, quanto mai ritrosi ad identificare esplicitamente in una presunzione semplice la ragione del proprio convincimento (e verosimilmente pure quella degli avvocati a proporla come tale).

Per altro verso, la sentenza conferma la riluttanza dei giudici a riconoscere le conseguenze dannose di contenuto patrimoniale delle reticenze femminili riguardanti il momento procreativo, probabilmente motivate dal non dichiarato timore che una condanna in tal senso possa risolversi, in definitiva ed in concreto, in una diminuzione delle tutele dovute ad un minore incolpevole.

Infatti, il totale rigetto delle pretese attoree riguardanti i danni patrimoniali non sembra del tutto condivisibile.

La questione riguardante la loro risarcibilità andava risolta, invero, secondo le ordinarie regole della causalità materiale, per le quali “in tema di responsabilità civile, qualora l'evento dannoso si ricolleghi a più azioni o omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41, c.p., in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l'evento, essendo quest'ultimo riconducibile a tutte, tranne che si accerti l'esclusiva efficienza causale di una di esse” (da ultimo: Cass. civ. n. 18753/2017).

Alla luce di questo consolidato principio di diritto non persuade l’idea che alla volontà del marito di mantenere il legame affettivo con la figlia e di voler continuare a sopperire alle sue necessità economiche, intesa anch’essa quale condotta causativa del danno costituito dalla corresponsione del predetto assegno di mantenimento, possa attribuirsi un’efficienza causale “esclusiva” ai fini di quest’ultimo, tale da rendere irrilevante l’apporto causale della precitata condotta colposa della moglie che, per evidenti ragioni, si pose all’origine della sequenza causale determinativa di quel danno.

Ancor meno persuade la valenza causale attribuita alla volontà del marito di non promuovere l’azione di disconoscimento, stante la sua assoluta irrilevanza, per il semplice fatto che il relativo diritto era ormai perento quando costui era venuto a conoscenza di non essere il padre della bambina e, dunque, l’azione anzidetta non avrebbe comunque potuto esser promossa.

 

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