Il diritto ad essere informati e il dovere di informazione

Il secondo comma dell’art. 1 della l. n. 219/2017 prevede che “è promossa e valorizzata la relazione di fiducia e di cura tra paziente e medico che si basa sul consenso informato ...”.
Il paziente per poter disporre liberamente e responsabilmente di sé ha bisogno di conoscere.
Il rispetto del diritto di autodeterminazione presuppone e implica l’impegno del medico, che è dovere giuridico, a fornirgli una puntuale informazione, perché nessuna scelta consapevole può prescindere da una chiara ed adeguata conoscenza delle proprie condizioni, dei benefici attesi e dei rischi connessi al trattamento proposto, delle alternative terapeutiche, delle implicazioni che ne conseguono (probabilità di successo, aumento dell’aspettativa di vita, aumento della qualità di vita, oneri fisici, psichici, economici ecc.).
Il terzo comma dell’art.1 statuisce che ogni persona “ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.
E poiché viviamo in un tempo in cui il progresso medico e le condizioni di vita hanno determinato una progressiva trasformazione delle patologie acute o a rapida progressione in patologie croniche e a lenta progressione, il successivo art. 5, al secondo comma, specifica che “il paziente (affetto da patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta)" deve essere adeguatamente informato anche "sul particolare evolversi della patologia in atto, su quanto può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative”.
Dopo la l. n. 219/2017, pertanto, il problema non è più “se” dire o non dire la verità al paziente, ma “come” dirla e come gestirne poi reazioni, ansie o timori, perché è sempre molto difficile accogliere ed accettare una “verità pesante”.
È quindi definitivamente archiviata la legittimità giuridica dell’approccio paternalistico, in cui era il medico ad interpretare il bene del paziente e le poche informazioni veicolate avevano spesso il solo obiettivo di favorirne l’adesione ai trattamenti proposti; mentre i famigliari divenivano gli effettivi interlocutori al posto del congiunto malato (si precisa che nel Codice Deontologico Medico del 1978 si leggeva “Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia”, allo stesso modo ancora nel Codice del 1998: “Il medico può valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà comunque essere comunicata ai congiunti”).
L’alleanza terapeutica è oggi una relazione tra pari, anche se il paziente deve essere accompagnato nell’esercizio della propria autodeterminazione da una informazione “completa, aggiornata e a lui comprensibile” (art.1, primo comma).
Il CDM 2014 (ma, in senso analogo, anche i precedenti CDM del 1998 e 2006) precisa all’art. 33 che “il medico garantisce ... un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico – terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione … corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e della reattività emotiva ....”.
In senso analogo il Codice deontologico degli Infermieri 2009 (art. 23): “L’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinché l’assistito disponga di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita”.
In tal modo la legge ha recepito gli orientamenti univoci della giurisprudenza di legittimità, già da tempo ferma nell’identificazione e valorizzazione del contenuto del dovere di informazione, che grava sul medico in funzione dell’interesse del paziente a scegliere liberamente di sé.
L'informazione deve investire tutti gli elementi idonei a consentire una scelta pienamente consapevole, incluse le sue conseguenze (Cass. sez. 3, 28 febbraio 2017 n. 5004) e concernere anche la valutazione della necessità di approfondimenti, includendo anche la tempistica di questi ultimi (Cass. sez. 3, 27 novembre 2015 n. 24220). Sulle modalità dell'informazione incide “la qualità del paziente, che obbliga ad adattarla al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone” (Cass. sez. 3, 20 agosto 2013 n. 19220).  
Per cui anche “Nel caso in cui un medico effettua un esame diagnostico entrando in diretto contatto con il paziente - come nell'ipotesi, per esempio, di un'ecografia o di una radiografia -, stilare un referto in termini scientifici sul suo risultato non è adempimento dell'obbligo di informazione, bensì adempimento, nella parte conclusiva, dell'obbligo di effettuazione dell'esame” (Cass. sez. 3, 4 febbraio 2016 n. 2177). Pertanto (Cass. n. 6688/2018) non si può “certo ritenere che  l'obbligo di informazione debba investire esclusivamente la sottoposizione a trattamenti terapeutici, in quanto include anche i risultati diagnostici, comprese per logica le correlate conseguenze di essi [...]. Un'informazione incompleta, al pari di una informazione assente, lede pertanto tale diritto del paziente; ed incompleta non può non essere un'informazione che non spieghi le caratteristiche di gravità o di rischio di gravità di quanto riscontrato, e che non segnali la presenza di un'eventuale urgenza in modo specifico e ben percepibile, in considerazione anche delle sue conoscenze scientifiche, dal paziente”.
Nella relazione terapeutica oltre al medico entrano per quanto di loro competenza altre figure di operatori sanitari (“Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria”, art. 1 comma 2) tutti comunque investiti del compito fondamentale di favorire la partecipazione consapevole del malato alle decisioni di cura e ai successivi interventi diagnostico-terapeutici.
In ogni caso assumono particolare rilievo l’ascolto del paziente e le modalità comunicative che devono essere adeguate al suo grado di comprensione e soprattutto proporzionate al grado di coinvolgimento che il malato ha scelto, tenendo presente che la legge gli consente di “indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece” (art. 1, comma terzo).
I codici deontologici hanno da tempo evidenziato come l’operatore sanitario si trovi a dover contemperare il diritto di informazione del paziente con la necessità che lo stesso non compia scelte controproducenti per la sua  salute, dietro la pressione emotiva generata dalle informazioni ricevute.
Già nel CDM 1998 si prevedeva che “le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione o sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza” (in senso analogo i successivi CDM 2006 e 2014).
In ogni caso oggi l’autonomia del paziente è al centro dell’alleanza terapeutica e comprende quindi anche il “diritto alla non informazione”: prima dell’autodeterminazione terapeutica esiste l’autodeterminazione informativa.
L’art. 1 co. 3 specifica che il paziente “può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni”. In questo caso “il rifiuto o la rinuncia alle informazioni ... sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.
Come nelle ipotesi del rifiuto di cure, anche il rifiuto o la rinuncia all’informazione lascia spazio all’attività di persuasione del medico: la persuasione mantiene un ruolo importante nel processo di formazione di una volontà consapevole potendo talvolta rimuovere semplici preconcetti che possono ingenerare convinzioni errate.
E anche in queste ipotesi è auspicabile da parte dei medici curanti una particolare continua attenzione comunicativa verso il paziente, onde verificare il permanere dell’atteggiamento di rifiuto, senza tralasciare dove possibile l’informazione sulla natura dei trattamenti, soprattutto se invasivi o dolorosi.
Il processo decisionale del paziente implica quindi ascolto, comunicazione e dialogo: l’alleanza terapeutica è prima di tutto luogo di incontro e di riconoscimento umano reciproco. Per questo richiede tempo, coinvolgimento e fatica da parte dei sanitari.
Opportunamente la legge specifica che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (art. 1, ottavo comma), principio guida valido non solo per il medico, ma anche per la struttura in cui questi opera: “Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale” (art. 1, nono comma).
Ma soprattutto richiede una nuova cultura ed una specifica preparazione, come stabilisce il decimo comma dello stesso articolo 1: “La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e comunicazione con il paziente, di terapia del dolore, di cure palliative”.
L’informazione che la legge richiede deve essere tale da consentire al paziente l’esercizio dei diritti che  appartengono a lui solo, sulla base di una compiuta trasmissione delle conoscenze medico scientifiche che invece appartengono alla competenza del professionista medico.
Questo, ove possibile, anche nelle situazioni di emergenza o di urgenza, in cui il medico “e i componenti dell’équipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla” (art. 1, settimo comma).
Il dovere di informazione e preventiva acquisizione del consenso/dissenso del paziente, nonché le possibilità di pianificazione della cura e di documentazione delle proprie volontà (DAT), ridurranno con grande probabilità le future ipotesi di applicazione dello stato di necessità ex art 54 c.p. e 2054 c.c.
Solo in casi residuali il medico dovrebbe trovarsi di fronte ad un paziente di cui non è in grado di ricostruire la volontà.
 
 
 

 

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