Riconoscibile la sentenza israeliana attributiva di effetti civili al matrimonio religioso contratto in Italia senza le formalità prescritte dalla legge italiana

Il caso proposto all’attenzione della Corte d’Appello aveva ad oggetto il riconoscimento di una sentenza del Tribunale rabbinico di Tel Aviv che aveva attestato la validità di un matrimonio religioso ebraico celebrato a Milano, da parte di due coniugi cittadini israeliani (e il marito anche italiano), attribuendogli effetti anche civili come previsto dalla legge israeliana.

Nel nostro ordinamento il riconoscimento delle sentenze straniere è automatico ai sensi degli artt. 64-66 della l. n. 218/95, ma l’art. 67 della stessa legge prevede una procedura di riconoscimento nel caso in cui vi sia una contestazione nel riconoscimento da parte dei soggetti chiamati a darvi attuazione.

Nella fattispecie, la procedura di riconoscimento di cui all’art. 67 l. n. 218/95, di competenza della Corte d’appello, si è resa necessaria perché l’ufficiale dello stato civile di Milano, cui la sentenza israeliana era stata presentata al fine di provvedere alle trascrizioni, iscrizioni e annotazioni di legge, aveva rifiutato di provvedervi, considerando ostativo al riconoscimento il fatto che il matrimonio era avvenuto in contrasto con quanto previsto dall’art. 14 della l. n. 101/1989 regolante i rapporti tra lo Stato italiano e l’Unione delle comunità ebraiche sulla celebrazione del matrimonio ebraico in Italia.

La difformità con la l. n. 101/89 consisteva in ciò, che l’art. 14 della stessa prevede due sole modalità di celebrazione del matrimonio ebraico in Italia: o quello esclusivamente religioso o quello religioso con effetti anche civili.

L’art. 14 comma 1 prevede che, così come avviene in Italia per il matrimonio cattolico, il matrimonio religioso può avere effetti anche civili se viene preceduto dalla formalità delle pubblicazioni.

Dato che, nella fattispecie, i ricorrenti avevano contratto un matrimonio esclusivamente religioso, non avevano fatto le pubblicazioni, sicché, secondo l’ufficiale di stato civile, la pronuncia del Tribunale israeliano che attribuiva ad esso effetti anche civili non poteva essere riconosciuta in Italia, in quanto sarebbe stata in contrasto con quanto prescritto dalla legge regolatrice delle intese fra lo Stato italiano e l’Unione delle comunità ebraiche.

Nel corso del procedimento le parti hanno argomentato se, in base alle norme di conflitto della l. n. 218/95, al matrimonio celebrato in Italia dovesse essere applicata la legge italiana o quella israeliana.

Tale discussione si è svolta con argomenti non pertinenti che non occorre riportare, in quanto l’oggetto del contendere non era la validità del matrimonio celebrato a Milano, ma se poteva o meno essere riconosciuta la sentenza israeliana che ne attestava la validità e gli effetti anche civili.

La Corte d’Appello di Milano ha pertanto valutato se sussistevano i requisiti previsti dall’art. 64 l. n. 218/95 per il riconoscimento della sentenza straniera.

Di questi requisiti pacificamente non venivano in considerazione quelli che attengono alla competenza internazionale del giudice, al rispetto del principio del giusto processo e all’assenza di contrarietà ad altra sentenza pronunciata da giudice italiano o di litispendenza con altro procedimento incardinato nel nostro Paese.

L’unico motivo che, astrattamente, avrebbe potuto impedire il riconoscimento della sentenza israeliana era quello di cui all’art. 64 lett. g), che prevede la non contrarietà degli effetti della sentenza straniera all’ordine pubblico.

Si trattava quindi di stabilire se il mancato rispetto della procedura prevista dalla l. n. 101/89 si configurasse come violazione dell’ordine pubblico costituito, com’è noto, da quel complesso di principi dell’ordinamento italiano ritenuti essenziali, quelli su cui è fondato il cemento della nazione quali potrebbero essere, ad esempio, i principi della parità uomo-donna o il divieto di discriminazioni di carattere etnico. L’ordine pubblico costituisce un limite alla penetrazione in Italia di leggi o sentenze straniere per la disarmonia che ne deriverebbe qualora questi strumenti affermassero principi e valori inconciliabili con quelli fatti propri dalla Costituzione e dalle leggi.

Correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto che la procedura di riconoscimento degli effetti civili al matrimonio religioso ebraico non rispecchiava alcun diritto fondamentale dell’uomo, e quindi non involgesse problematiche di ordine pubblico, tanto ciò vero che essa è stata discrezionalmente disciplinata con legge ordinaria e sempre con legge ordinaria potrebbe essere modificata.

Né poteva ravvisarsi una violazione dell’ordine pubblico per la mancanza della procedura delle pubblicazioni. A conferma di tale assunto, la Corte d’Appello porta un argomento a nostro avviso non pertinente, citando la sentenza della Cassazione 15343/2016 che ha riconosciuto validità al matrimonio celebrato per telefono tra due cittadini pakistani. In realtà tale decisione non ha nulla a che vedere con la tematica delle pubblicazioni, ma piuttosto con la questione, che qui  non rileva, se la legge pakistana che ammette la validità del matrimonio celebrato a distanza (peraltro con opportune cautele volte ad assicurare la libertà del consenso espresso dagli sposi) possa valere come legge regolatrice della forma del matrimonio in forza del criterio di collegamento della cittadinanza di almeno uno dei nubendi, come stabilito dall’art. 28 della l. n. 218/95, o se la stessa debba essere ritenuta contraria all’ordine pubblico per il fatto che non prevede la contemporanea, fisica presenza degli sposi al momento della celebrazione.

Ferma la non pertinenza di questo argomento, è invece condivisibile la conclusione raggiunta dalla Corte d’Appello di Milano circa il carattere non indispensabile delle pubblicazioni. Si tratta, infatti, di un requisito previsto dalla legge italiana affinché il matrimonio produca direttamente anche effetti civili, ma che certamente non osta a che un matrimonio celebrato inizialmente con effetti solo religiosi possa produrre effetti civili per altra via, cioè a seguito di una sentenza israeliana che ne attesta la regolarità, riconoscendogli gli effetti civili nell’ordinamento israeliano.

A conferma dell’estraneità delle problematiche di ordine pubblico in questa vicenda, si può osservare che questo, nelle fonti di diritto internazionale privato sovranazionale, viene considerato sempre più un’extrema ratio a cui fare ricorso solo in casi eccezionali, come risulta dal fatto che quella che normalmente si richiede, sia per impedire l’applicazione della legge straniera che per impedire il riconoscimento delle decisioni, è una contrarietà manifesta.

In sostanza non era questione di stabilire se il matrimonio celebrato in Italia senza pubblicazione potesse produrre effetti civili in contrasto con quanto stabilito dalla l. n. 101/89, perché pacificamente non li produceva, ma se fosse riconoscibile la sentenza che glieli attribuiva ex post; e la decisione della Corte d’Appello di Milano è condivisibile perché pacificamente le sentenze straniere possono essere riconosciute anche se applicano una legge diversa da quella che avrebbe applicato il giudice italiano ove si fosse occupato del caso, salvo che la diversità delle leggi applicate non sia tale da configurare una violazione dell’ordine pubblico. Cosa che nel caso concreto non si era verificata.

Per questo motivo riteniamo che non vi fossero ostacoli a riconoscere la sentenza israeliana, nonostante che, dal punto di vista dell’ordinamento italiano, in virtù del combinato disposto degli artt. 19 e 27 l. n. 218/95 la validità del matrimonio contratto dal coniuge munito di doppia cittadinanza italiana e israeliana avrebbe dovuto essere giudicata in base alla legge italiana e che questa, attesa la mancanza delle pubblicazioni, non avrebbe riconosciuto a tale matrimonio gli effetti civili e avrebbe quindi considerato insussistente il rapporto giuridico di coniugio.

E’ lo stesso motivo per cui non si può negare il riconoscimento alla sentenza straniera che ha accertato la validità di un contratto  solo perché il giudice italiano, investito della stessa questione, applicando la legge designata dai propri criteri di collegamento l’avrebbe considerato invalido, salvo che questa invalidità non fosse così grave da configurare addirittura contrarietà dall’ordine pubblico.

 

 

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