Pensione di reversibilità all’ex coniuge: spetta anche al titolare di un assegno meramente simbolico?

IL CASO. La Corte d’appello di L’Aquila, adita su ricorso dell’INPS, confermava la sentenza di primo grado che aveva condannato l’Istituto di Previdenza a corrispondere ad una donna divorziata una quota della pensione di reversibilità dell’ex coniuge defunto.
Avverso tale pronuncia ricorreva per cassazione l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 9 l. n. 898/1970 e dell’art. 5 l. n. 263/2005. 
In particolare, l’INPS sosteneva che l’esiguità dell’assegno – di appena un dollaro annuo - riconosciuto alla donna dal Tribunale Superiore della California in sede di scioglimento del matrimonio escludesse il suo diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità del marito, non potendosi equiparare un’erogazione siffatta, meramente simbolica, all’assegno di divorzio che l’art. 9, comma II, della l. n. 898/1970 richiede quale presupposto per il riconoscimento della pensione di reversibilità.
LA DECISIONE. La sentenza n. 20477 del 28.9.2020, in commento, offre alla Suprema Corte l’occasione per dissociarsi dal precedente orientamento giurisprudenziale per il quale, ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità, doveva ritenersi sufficiente la mera titolarità di un qualsiasi assegno divorzile (purché giudizialmente riconosciuto), anche se di importo minimo o addirittura simbolico.
Per giungere a tale netto cambio di rotta, gli ermellini partono da un’indagine circa la ratio dell’istituto in esame, espressa dalle Sezioni Unite con la recente pronuncia n. 22434/2018 nell’esigenza di compensare “il venir meno del sostegno economico apportato in vita dall’ex coniuge scomparso”, sopperendo a tale perdita economica.

Se la finalità dell’istituto è, quindi, quella di garantire all’ex coniuge superstite la continuazione del sostegno economico prestato in vita dal defunto, la Suprema Corte evidenzia come non possa attribuirsi rilievo decisivo ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità alla mera percezione da parte del superstite di un qualsiasi assegno, anche solo simbolico, dovendosi piuttosto indagare se “il trattamento attribuito al coniuge divorziato possieda i requisiti tipici previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5 ovvero, e più precisamente, che esso sia idoneo ad assolvere alle finalità di tipo assistenziale e perequativo-compensativa che gli sono proprie di talché (…) consenta (…) all’ex coniuge il raggiungimento di un concreto livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare”.

Una diversa soluzione, infatti, potrebbe addirittura prestare il fianco a situazioni illogiche nelle quali il coniuge superstite, dapprima fruitore di un assegno divorzile irrisorio, si trovi a percepire importi addirittura maggiori a titoli di pensione di reversibilità. 
Sulla base di tali ragionamenti, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado, rea di aver riconosciuto alla donna la pensione di reversibilità in ragione della sola titolarità dell’assegno, senza indagare anche se tale assegno assolvesse o meno le finalità attribuitegli dall’art. 5 della legge sul divorzio.

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