Lessico bioetico del fine vita

Oh, avere la bella sicurezza di Tombolo Bombolo! In contraddittorio con Alice – quella del Paese delle Meraviglie – afferma, con tono piuttosto sdegnoso: “Quando io adopero una parola, essa ha esattamente il significato chi io le voglio dare… né più né meno”. “Bisogna vedere” disse Alice “se voi potete fare in modo che le parole indichino cose diverse”. E Tombolo Bombolo: “Bisogna vedere chi è che comanda … ecco tutto” (Lewis Carrol: Nel mondo dello specchio).

Che le parole possano indicare cose diverse è un’esperienza quotidiana. Se vogliamo un esempio estremo, prendiamo la parola “eutanasia”. È utilizzata per due situazioni che più contraddittorie non potrebbero essere. Da una parte si propone, come indica l’etimologia, che il morire sia “eu”. Comunque vogliamo tradurre il prefisso greco, sappiamo che ci conduce nel terreno della desiderabilità. L’eutanasia diventa allora un impegno a far sì che il morire avvenga in maniera dolce, dignitosa, senza sofferenze strazianti. Ma la stessa parola è stata utilizzata per il progetto nazista di togliere di mezzo le “vite non degne di essere vissute”. Quelle, in ogni caso, che uno stato razzista, ideologico e autoritario riteneva tali, mettendo a morte malati mentali, portatori di disabilità e persone segnate da difetti genetici. Una stessa parola per due pratiche assolutamente antitetiche, così come il pensiero da cui sono sostenute.

Ma non basta. Come su un attaccapanni ognuno appende l’abito che vuole, così questa stessa infelice parola è costretta a indicare comportamenti che divergono profondamente nell’intento e nella pratica. Consideriamo in primo luogo il trattamento dei sintomi che accompagnano la fase finale della vita, soprattutto il dolore. Le cure mediche possono fare molto per contrastarlo. E se quanto viene messo in atto in questo ambito comportasse un abbreviamento della vita? Potremmo chiamare eutanasia queste misure? È istruttivo evocare come questa evenienza viene descritta dal Catechismo della Chiesa cattolica (del 1992), considerando la ben nota intransigenza della dottrina cattolica nella difesa della vita, fino a invocare “principi non negoziabili”. Ebbene, i comportamenti sanitari rivolti a lenire e contenere il dolore non evocano nessuna condanna, quand’anche dovessero comportare un anticipo della morte: “L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”. Dunque, assolutamente fuori luogo parlare di eutanasia in questo contesto.

Una diversa situazione è quella che potremmo sintetizzare nella parola: “Basta!”. Si tratta, in concreto, di mettere un limite ai trattamenti medici che sono in grado di prolungare la vita. Da benedizione, possono anche diventare una condanna a sopravvivere in condizioni che la persona aborrisce. La misura non è uguale per tutti. Ci sono malati che sono disposti ad accettare qualsiasi trattamento, pur di strappare qualche scampolo di vita, in qualsiasi condizione; altri invece considerano certe forme di sopravvivenza un frutto avvelenato. La frontiera è assolutamente individuale: non ha niente a che vedere con gli schieramenti dottrinali. Per riferirci ancora una volta alle posizioni della morale cattolica, è istruttivo che la parola più chiara, in senso pratico, per evocare limiti alle cure sia venuta da papa Giovanni Paolo II, quando ha rifiutato il trattamento che avrebbe potuto prolungare la sua sopravvivenza: “Lasciatemi andare alla casa del Padre”, ha chiesto. “Voglio che non facciate più niente” è invece l’invocazione che mons. Tonino Bello - una figura carismatica in ambito ecclesiale - ha rivolto ai medici che intendevano procedere all’intubazione; consapevole di essere giunto alla fine del suo percorso nella vita, ha rinunciato a un prolungamento dissonante con il suo modello di vita. È una richiesta che, in forme meno eclatanti, può essere avanzata da morenti consapevoli di quali prezzi dovrebbero pagare per prolungare l’esistenza. Anche in questi casi la lunghezza della vita viene abbreviata, ma si tratta di stabilire un limite alle cure: non attivando quelle possibili o disattivando quelle in atto. E’ un diritto che le persone previdenti esercitano in modo consapevole, se non vogliono correre il rischio di approdare là dove la sopravvivenza non ha più per loro un carattere desiderabile.

Passiamo a un altro scenario. Anche questo lo sintetizziamo con una frase esplicita: “Dottore, mi faccia morire!”. È una domanda che suscita molteplici inquietudini. Un primo interrogativo: da dove proviene? Possiamo immaginarla come una protesta che nasce da un mancato trattamento palliativo. Oppure come una tacita sfida che equivale a: “La mia vita importa ancora a qualcuno?”. Le risposte non possono che essere differenziate, a seconda del significato recondito che attribuiamo alla domanda. Più ardua è l’ipotesi che dietro alla richiesta ci sia una vera e propria sazietà di vita (viene in mente l’espressione biblica riferita alla morte dei patriarchi Abramo e Isacco, dei quali si dice che chiusero l’esistenza terrena “sazi di giorni”). La tendenza più diffusa è di svalutare questo tipo di domanda, considerandola indice di un cedimento morale o psicologico. Lo potremmo considerare il “comma 22” delle cure palliative. Il celebre romanzo omonimo di Joseph Heller vuol mettere in ridicolo le assurdità della guerra in generale e della vita del soldato in particolare. Il protagonista è costretto a scoprire la trappola burocratica che gli impedisce di sottrarsi alle missioni di volo, nelle quali rischia ogni volta la vita. Quando chiede l’esenzione, gli viene contrapposto il comma 22 del regolamento militare: se un pilota è pazzo, può essere esentato dal volo; ma se uno chiede di essere esentato non è veramente pazzo.

Nelle cure di fine vita il comma 22 potrebbe essere così riformulato: se una persona è mentalmente sana può chiedere che si ponga fine alle sofferenze che giudica insopportabili, procurandole la morte; ma se una persona fa questa richiesta, non è mentalmente sana: è depressa! Perciò va curata e la sua richiesta non va ascoltata. La seconda questione in questo scenario è appunto: che cosa fare, quando uno chiede di morire? Siamo di fronte alle incertezze giuridiche – etiche – deontologiche relative al suicidio assistito. Ma, ancora una volta, chiamiamo questa tematica con il nome appropriato, senza evocare l’ombra oscura dell’eutanasia.

Partire dalle situazioni di fine vita o dalle parole che utilizziamo per designarle? Le situazioni sono molteplici, le parole possono essere equivoche. Soprattutto quando una stessa parola - eutanasia - viene utilizzata per situazioni assolutamente diverse. Ritroviamo qui il problema delle parole e del loro significato. E di chi abbia il potere di attribuire loro i significati.  La presunzione di Tombolo Bombolo gli fa credere che abbiano il significato che lui dà loro. No, caro Tombolo Bombolo: neppure chi abbia un io grande come il tuo può presumere di attribuire alle parole il significato che lui vuole. Il potere per questa operazione è riservato al noi; presume un consenso sociale. Il cammino per arrivare a questo accordo è ancora molto lungo. È l’arduo lavoro che ci viene richiesto.

Sandro Spinsanti
Esperto di bioetica
Direttore dell'Istituto Giano per le Medical Humanities

 

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