Per usucapire la quota dei coeredi è necessario il possesso ad excludendum

Con l’ordinanza 966/19, depositata il 16 gennaio 2019, la Corte di Cassazione, Sez. II Civ., ha espresso il principio di diritto secondo cui la quota dei coeredi può essere usucapita anche senza l’interversione del titolo del possesso, purché quest’ultimo sia stato esercitato dal coerede in termini di esclusività, ossia che il godimento del bene sia stato esercitato in modo tale da rendere impossibile il godimento altrui sul medesimo. Tuttavia, il fatto che il coerede possessore abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario mentre gli altri coeredi si siano astenuti da dette attività, non è circostanza sufficiente e univocamente significativa al fine di provare l’esclusività del possesso, vigendo, infatti, la presunzione iuris tantum che il coerede possessore abbia agito anche nell’interesse degli altri.

IL CASO. La vicenda ha origine da una domanda di scioglimento di comunione ereditaria con rendiconto proposta dalla coerede Caia nei confronti dei coeredi Tizio e Sempronia. In particolare la contesa giungeva in Corte di Cassazione a seguito del ricorso promosso da Tizio avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia che aveva rigettato la domanda riconvenzionale, da lui proposta, di accertamento dell’intervenuta usucapione del bene ereditario.

I motivi proposti da Tizio in sede di ricorso erano due e consistevano: 1. nella violazione e falsa applicazione degli artt. 714, 1102, 1141 e 1164 c.c., con la contestazione del fatto che la Corte territoriale aveva rigettato la domanda di usucapione dei beni ereditari per carenza di atto di interversione del possesso, laddove l’art. 714 c.c. non richiede alcun atto di interversione, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità; 2. nella falsa applicazione dell’art. 714 c.c., lamentando che la Corte d’appello non aveva valutato se il possesso esercitato dal ricorrente sui beni ereditari per il periodo complessivo di 35 anni presentasse il carattere di esclusività. Tizio contestava, in particolare, il fatto che il possesso integrale dei beni gli fosse stato consentito per mera tolleranza. Al contrario, dall’istruttoria, secondo le difese del ricorrente, era emerso chiaramente un’implicita ammissione da parte della coerede di non aver potuto fare uso dei beni ereditari senza il permesso del fratello, ed inoltre era stato dimostrato che tutti i lavori di manutenzione e/o ristrutturazione dell’abitazione erano stati effettuati da o per conto di Tizio, oltre ad altre circostanze comprovanti il possesso esclusivo da parte di Tizio.

L’ORDINANZA. La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi, il primo perché infondato e il secondo perché inammissibile.
Con riferimento al primo motivo la Suprema Corte ha affermato che “la Corte d’appello non aveva fondato la decisione sul rilievo che non vi fosse prova di atti di interversione del possesso, bensì sul rilievo che

non fosse provato il possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di analogo rapporto”.

Sulla scorta della giurisprudenza di legittimità consolidata, la Corte di Cassazione chiarisce che

il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus.

A tale riguardo non è univocamente significativo che egli abbia utilizzato e amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse anche degli altri coeredi”.

In merito al secondo motivo, la Corte di Cassazione ha, anzitutto, ricordato che la valutazione delle risultanze probatorie effettuata dal giudice di merito non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità se non nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5. In ogni caso, secondo i giudici di legittimità,

“la Corte d’Appello aveva evidenziato che nel lungo periodo intercorso tra l’apertura della successione paterna (1964) e la morte della madre, Tizio aveva continuato a vivere nella casa di famiglia con la madre e aveva esercitato il possesso dei beni ereditari, ma non risultava che il suo rapporto con detti beni precludesse alle sorelle coeredi di possedere anch’esse. Stesso rilievo valeva per il periodo successivo alla morte della madre”.

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