E’ nullo lo scioglimento della comunione ereditaria quando coinvolge immobili abusivi?

21 NOVEMBRE 2018 | Successioni e donazioni

La Corte di Cassazione, dinanzi alla possibilità di rilevare la nullità dello scioglimento della comunione ereditaria, per il caso che questa coinvolga beni immobili abusivi, ha rimesso, gli atti al Primo Presidente, ex art. 374 c.p.c., con ordinanza interlocutoria n. 25836/18, depositata il 16.10.2018, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la decisione del ricorso alle Sezioni Unite, data la particolare importanza della questione soprattutto per l’impatto sulla circolazione dei beni immobili.

IL CASO. La Curatela del Fallimento di Tizio conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Palermo, Caio e Sempronio al fine di ottenere la divisione del fabbricato destinato ad abitazione civile e la conseguente assegnazione alla Curatela della quota dei 2/9 di spettanza del fallito Tizio.  Rimasti contumaci i convenuti, a seguito dell’espletata CTU risultava sussistere un abuso edilizio, mai sanato dal de cuius.

Il Tribunale rigettava le domande attoree e la Corte territoriale confermava la decisione di prime cure. Ritenendo applicabile alla fattispecie la sanzione della nullità prevista dalla l. n. 47/1985 (“Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”) e dal successivo d.P.R. n. 380/2001 (“Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”), che stabiliva l’impossibilità di stipulare atto tra vivi di trasferimento, di costituzione, di scioglimento della comunione di diritti reali relativi ad edifici, o loro parti, sia in forma pubblica, sia in forma privata, ove su questi non risultino gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. L’impossibilità di conseguire lo scioglimento della comunione veniva giustificata con la necessità, di natura pubblicistica, “di impedire il consolidarsi di gravi violazioni urbanistiche mediante la circolazione di beni abusivi, ritenuta confliggente con l’interesse superindividuale ad un ordinato assetto del territorio”.

La Curatela ricorreva, però, in Cassazione ritenendo la violazione e la falsa applicazione degli articoli 17, comma 1, e 40, comma 2, L. 47/1985. Ratione temporis, trattandosi di opere abusive risalenti al periodo tra il 1970 e il 1976, per cui avrebbe dovuto applicarsi, anziché l’art. 17, comma 1, L. 47/1985, l’art. 40, comma 2, della stessa legge che, tra gli atti nulli, non prevede lo scioglimento delle comunioni (“Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell'articolo 31 ovvero se agli atti stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell'avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell'avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione di cui al sesto comma dell'articolo 35”).

In secondo luogo la divisione ereditaria, diversamente da quanto dedotto dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto qualificarsi quale atto mortis causa e non inter vivos, con conseguente, inevitabile disapplicazione dell’art. 17, comma 1, L. 47/1985, che si assumeva violato.

L’ORDINANZA. La Corte di Cassazione rileva, anzitutto, che

la norma che si assumeva violata (art. 17, comma 1, L. n. 47/1985), pur riguardando atti di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”, limita espressamente il proprio campo oggettivo di applicazione ai soli “atti tra vivi”, lasciando, quindi, al di fuori tutta la categoria degli atti mortis causa.

Di seguito, ricorda che la natura dell’atto di divisione della comunione ereditaria è quella di atto “mortis causa”: “come esattamente osservato da autorevole dottrina, la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo la morte del de cuius, costituisce l’evento terminale della vicenda successoria e, quindi, rispetto a questa non può considerarsi autonoma. Tale rilievo trova conferma nel dato positivo offerto dall’art. 757 c.c., che assegna efficacia retroattiva alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale”.

E diversamente opinando, riconosce la Corte, “si perverrebbe ad irragionevoli differenze di trattamento rispetto ad ipotesi sostanzialmente omogenee, non potendosi in alcun modo giustificare l’esigenza dell’applicazione della norma in esame alla divisione ereditaria e la non applicazione di essa alla divisione operata dal testatore oppure l’applicazione della norma all’ipotesi di attribuzione ereditaria di un edificio a più soggetti e la non applicazione all’ipotesi di attribuzione ereditaria dello stesso edificio ad un solo soggetto”.  

Di conseguenza “la divisione ereditaria non è condizionata dalla regolarizzazione urbanistica dell’immobile di cui trattasi”. Detto principio deve essere affermato sia con riferimento alla nullità prevista dall’art. 17 L. n. 47/1985, sia relativamente a quella di cui all’art. 40, con la conseguenza che neanche la divisione giudiziale del compendio ereditario può ritenersi subordinata al conseguimento, da parte di condividenti, del titolo di regolarizzazione urbanistica.

A rafforzare la tesi concorre il generale principio di diritto per cui le ipotesi di nullità non possono applicarsi al di fuori della sfera strettamente delineata dal legislatore, il quale, nella fattispecie, ha inteso limitare l’ambito sanzionatorio agli atti tra vivi.

La Corte di Cassazione poi, contraddicendo quanto sostenuto dalla Corte di merito, ricorda che

“l’effetto dichiarativo-retroattivo della divisione, ex art. 757 c.c., comporta che ciascun condividente sia considerato titolare dei beni assegnatigli ex tunc, e cioè dall’apertura della successione; e che la natura dichiarativa della divisione esclude che essa abbia efficacia traslativa, e così il titolo di acquisto del condividente risale non all’atto divisione, ma all’originario titolo che ha costituito la situazione di comproprietà”

(sul punto si veda Cass. Civ. n. 7231/2006).

Tuttavia la Corte di legittimità prende atto delle valide argomentazioni attraverso le quali la Corte di merito ha inserito lo scioglimento della comunione ereditaria negli atti tra vivi, con la conseguente applicabilità della sanzione della nullità stabilita per il mancato rispetto della normativa urbanistica. Come sostiene infatti la Corte d’Appello, anzitutto “i negozi mortis causa si distinguono dai negozi inter vivos in quanto soltanto i primi sono destinati a regolamentare la vicenda successoria o a disporre per il tempo successivo alla morte del disponente; mentre i negozi inter vivos sono immediatamente efficaci, anche se contengono eventualmente una disposizione di proroga della loro stessa efficacia; che, dunque, i primi si distinguono in base al fatto che la causa negoziale dell’attribuzione è l’evento morte, nella qualificazione dei secondi non si fa riferimento ad una specifica causa, in quanto le cause possono essere molteplici ed incontrano l’unico limite della legittimità e sussistenza di esse”.

Per questo motivo

risulterebbero, dunque, “prive di pregio sia la pretesa equiparazione dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria con la disposizione testamentaria che attribuisce a ciascun erede un certo bene, sulla base dell’osservazione che entrambi gli atti realizzerebbero l’identico risultato, sia l’affermazione per cui l’art. 757 c.c. avvalli questa tesi; laddove, se anche lo scioglimento volontario della comunione ereditaria può realizzare, di fatto, l’attribuzione di un singolo cespite dell’asse ereditario ad uno o più eredi, viene rilevato che, dal punto di vista giuridico, essa non può certamente essere ricondotta alla volontà del de cuius, discendendo in realtà soltanto dalla volontà dei contraenti, vivi, del negozio divisorio”.

In secondo luogo, sempre secondo la Corte di merito, comunque

la pronuncia giudiziaria di scioglimento della comunione avrebbe funzione suppletiva di quella negoziale, tanto che deve, dunque, ritenersi “che essa sia soggetta alle stesse norme, e in particolare alle prescrizioni urbanistiche, di quest’ultima”, altrimenti, ragionando al contrario “si arriverebbe al risultato paradossale di potere eludere le norme urbanistiche attraverso il procedimento giudiziario”.

Alla luce delle contrastanti argomentazioni, il Collegio ha ritenuto sussistenti i presupposti per la rimessione degli atti al Primo Presidente, ai fini anzidetti.

 

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