La violenza domestica non è mero fatto privato ai fini del riconoscimento della protezione internazionale

09 NOVEMBRE 2020

IL CASO. Una cittadina albanese proponeva ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di Bari che aveva rigettato la sua impugnazione del provvedimento di diniego del riconoscimento della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione territoriale.
Il ricorso per Cassazione si fondava su due censure: con la prima – lamentando di non essere stata mai sentita dal giudice del merito – la ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione della Convenzione di Ginevra e delle normativa interna attuativa della Direttiva 2004/83/CE, avendo il Giudice omesso di valutare la condizione delle donne nella società albanese ed in particolare le segregazioni, violenze e minacce che la ricorrente era stata costretta a subire dal proprio compagno senza che la polizia le avesse fornito alcun tipo di protezione (e nonostante le denunce effettuate). 
Con la seconda censura, veniva denunciata la violazione e falsa applicazione delle norme attuative della Direttiva europea sullo status di rifugiato e del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero, non essendole stata riconosciuta nemmeno la protezione umanitaria.
LA DECISIONE. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 18803 depositata in data 10.9.2020, ha accolto il primo motivo e dichiarato assorbito il secondo, cassando quindi il decreto impugnato e disponendo il rinvio al Tribunale di Bari in differente composizione.
La Suprema Corte ha anzitutto rilevato un irriducibile contrasto logico tra due affermazioni del Tribunale di Bari. Da un lato, infatti,

il giudice dell’impugnazione aveva minimizzato le violenze subite dalla ricorrente, degradandole a mera violenza privata senza dare alcun tipo di rilievo al mancato intervento delle forze di polizia. Dall’altro, lo stesso giudice aveva motivato l’omessa audizione della ricorrente sul presupposto che il verbale delle dichiarazioni rese avanti la Commissione territoriale prodotto in causa contenesse dichiarazioni “sufficientemente ampie e adeguatamente illustrative dei motivi dell’invocata protezione”.  

Quanto al verbale dell’audizione resa avanti la Commissione territoriale, la Corte ha precisato che

il giudice di merito, in assenza di videoregistrazione del primo colloquio reso in sede amministrativa, non può fondare l’omessa audizione del richiedente sugli elementi risultanti dal verbale messo a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, in quanto “la valutazione sulla credibilità della storia personale riferita dal richiedente la protezione, infatti, è fondata su un giudizio di verosimiglianza nel quale assumono rilievo centrale le modalità con cui, in concreto, viene narrato il racconto; di conseguenza, la ratio della norma che impone la fissazione dell'udienza in ogni caso in cui non sia disponibile la videoregistrazione del colloquio svoltosi in sede amministrativa va ricercata nell'esigenza di consentire l'effettivo incontro tra richiedente e giudice, al fine di assicurare al primo la facoltà di svolgere pienamente il diritto al contraddittorio ed al secondo la possibilità di esercitare, in concreto, il potere-dovere di cooperazione istruttoria”. 

Nel caso di specie, alla luce di elementi certi  emersi in relazione ad un “contesto grave di violenza domestica” e a fronte dell’assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi avanti la Commissione territoriale, il Tribunale di Bari avrebbe dovuto compiere un’indagine istruttoria approfondita volta alla verifica della veridicità di quanto narrato dalla ricorrente.
La Suprema Corte ha specificato, inoltre, che tale approfondimento istruttorio deve essere condotto tenendo conto del seguente principio di diritto: "La violenza di genere, al pari di quella contro l'infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del "fatto meramente privato", poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli "atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale" (cfr. lett. a), che con riguardo, in generale, agli "atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia" (cfr. lett. f)".

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