De jure condendo: verso un nuovo diritto per comporre i conflitti nati dall’emergenza?

09 APRILE 2020 | Numero Speciale COVID-19

1. L’assoluta “novità” della situazione di emergenza globale creata dalla pandemia del COVID 19, per la sua pervasività e per la sua durata, è destinata a lasciare segni molto profondi del tessuto delle relazioni sociali ed economiche e, fatalmente, a creare conflitti di interessi di vario genere potenzialmente forieri di una litigiosità rilevante e protratta.

Più d’uno, già in questi giorni, ha auspicato che la composizione di questi conflitti non venga affidata al giudice, ma al legislatore

Soprattutto per rendere meno laceranti le ferite prodotte da numerose e protratte controversie giudiziarie e meno traumatica la loro decisione.

Il minimo comun denominatore delle proposte che cominciano a profilarsi in questa direzione è quello di una composizione solidaristica dei conflitti da attuarsi mediante norme imperative che innovino il diritto comune o, in alcuni casi, da norme eccezionali, destinate a risolvere alcune problematiche specifiche sollevate da certe conseguenze dell’evento pandemico. 

2. La prima categoria di proposte sollecita il legislatore a modificare il diritto dei contratti, anticipando, per questa materia, l’auspicata riforma del codice civile per la quale il Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto col Ministro della giustizia, ha presentato al Senato il disegno di legge n. 1151 (“Delega al Governo per la revisione del codice civile”).

L’art. 1, primo comma, lettera i) di tale disegno di legge stabilisce che, fra l’altro la delega debba:

i) prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l'adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti”.

Nella Relazione che accompagna il d.d.l. si legge che “molto attuale e particolarmente rilevante nella pratica degli affari è il tema delle sopravvenienze nella fase esecutiva dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, cui il codice civile, per i contratti con prestazioni corrispettive, dedica esclusivamente la disposizione dell'articolo 1467 del codice civile”, lamentando che “allo stato, gli spazi riconosciuti per l'intervento giudiziale correttivo dell'equilibrio contrattuale concordato tra le parti sono molto limitati”.

E si osserva che “nella pratica degli affari si tende a porre rimedio alle sopravvenienze che, secondo l'apparato rimediale tradizionale, dovrebbero comportare la caducazione del contratto (spesso gravemente pregiudizievole per la parte tenuta alle restituzioni), inserendo nel programma negoziale obbligazioni di rinegoziazione, che consentono la manutenzione del contratto (alla stregua delle cosiddette hardship clauses note ai principi Unidroit)”, mentre le nuove norme oggetto di delega dovrebbero contemplare “un rimedio di generale applicazione, idoneo a ristabilire l'equilibrio tra le prestazioni”, e cioè la “proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti”.

Rimedio questo che dovrebbe essere esteso “ad ogni ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta”, e quindi ben oltre i limiti oggi previsti dall’art. 1467 c.c.

La Relazione conclude, su questo punto, osservando che l’intervento del giudice, in caso di mancato accordo tra le parti, risulterebbe “in linea con la clausola di solidarietà sociale di cui all'articolo 2 della Costituzione (come interpretata, tra l'altro, dalle succitate ordinanze della Corte costituzionale), oltre che con l'ordinamento europeo, che conosce i poteri di sindacato e di intervento giudiziale sull'autonomia contrattuale dei privati, in specie a tutela dei contraenti « deboli » dei contratti tipicamente asimmetrici”.

E’ a questo genere di rimedi, ed all’apparato argomentativo addotto dalla Relazione citata, che alcuni autori hanno fatto riferimento per sostenere che l’ordinamento vigente in tema di disciplina dei contratti non possiederebbe “sufficienti anticorpi, ossia gli strumenti giuridici idonei per gestire le difficili vicende che potrebbero presentarsi alle corti” per effetto delle “pesantissime conseguenze” che la pandemia e le misure adottate per arginarla avranno su moltissimi “rapporti negoziali o, comunque, di natura obbligatoria”, essendovi quindi il rischio che a tali già gravi conseguenze “si aggiunga anche un’aspra e complessa contesa giudiziaria imperniata sulla disciplina delle sopravvenienze” (FRANCESCO MACARIO, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “coronavirus”, in Giustizia civile, 17.3.2020).

Di qui l’invito a raccogliere il depositato di “un’autorevole dottrina….– può essere sufficiente ricordare i nomi di Rodolfo Sacco ed Enzo Roppo, con i rispettivi volumi sul contratto in generale – [che] ha in tempi non sospetti avallato l’idea (avanzata in studi, in un certo senso pionieristici, della metà degli anni Novanta), secondo la quale (in alternativa alla e) prima di giungere alla risoluzione del contratto dovuta agli effetti pregiudizievoli delle sopravvenienze l’ordinamento favorirebbe le soluzioni ‘manutentive’ (secondo l’espressione di Roppo) ossia conservative del vincolo, mediante un adeguamento del regolamento contrattuale, rivelatosi non più ragionevolmente attuabile secondo le pattuizioni originarie, che nasca dalla rinegoziazione tra le parti (quale soluzione evidentemente auspicabile) ovvero, in subordine, dalla pronuncia del giudice, cui rimarrebbe pur sempre la facoltà di valutare se la ‘correzione’ o ‘modificazione’ del regolamento sia in concreto praticabile o se non si debba, inesorabilmente, giungere alla risoluzione”.

Col corollario per cui “la decisione del giudice, nel momento in cui questi opti per la conservazione del vincolo a condizioni mutate sulla base delle circostanze che hanno determinato lo squilibrio economico insostenibile, dovrebbe fare i conti con l’uso accorto delle clausole generali (in particolare, la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto e nel rapporto obbligatorio) e con la valutazione in termini equitativi dei risultati”.

Dovrebbe perciò trattarsi, similmente a quanto avvenuto negli ultimi lustri per la normativa delle procedure concorsuali, di “una ridefinizione della disciplina generale del contratto… che, in relazione alle sopravvenienze, sposti con decisione il baricentro della soluzione delle controversie dall’opzione estintiva del vincolo… al rimedio ‘correttivo’, ossia finalizzato all’adeguamento del regolamento contrattuale”, da attuarsi per decisione del giudice, ove le parti non si accordino in tal senso.

A questo riguardo vengono citati gli esempi rappresentati dalla “riforma del diritto dei contratti nel codice civile” francese, il cui “nuovo art. 1195… dispone che la parte onerata “peut demander une renégociation du contrat à son cocontractant” ovvero “della norma del nuovo codice argentino che si esprime in termini di: «oportunidad razonable de renegociar de buena fe, sin incurrir en ejercicio abusivo de los derechos”.

Un altro autore (ANTONIO DE MAURO, Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione, in Giustizia civile, 27.3.2020), aderendo a queste suggestioni, ha osservato come “la straordinarietà dell’evento che stiamo vivendo, la sua diffusione mondiale, le conseguenze inevitabili sulle attività produttive… non possono essere liquidate quali elementi irrilevanti in ordine alla esigibilità della prestazione”.

Ed, inoltre, che per un verso è “stato autorevolmente sostenuto [P. PERLINGIERI, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, cit., 452 ss.] che il compimento o l’omissione di atti, che costituiscono manifestazione di solidarietà umana e sociale o di esigenze dello sviluppo delle personalità, può costituire causa non imputabile” e per altro verso, altra autorevole dottrina, ha osservato “se è vero che deve considerarsi imputabile a chi non adempie la situazione determinata dalla sua insufficienza economica, non parrebbe potersi estendere l’affermazione sino a costringere il debitore a fallire o ad assoggettarsi all’olocausto economico, quando ciò è l’inevitabile conseguenza dello sforzo da compiersi per eliminare la sopravvenuta non imputabile impossibilità della prestazione (G. COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, cit., 161)”].

Pur suggerendo che “un ricorso all’istituto della impossibilità sopravvenuta, segnatamente all’ipotesi prevista dal 2° comma dell’art. 1256 c.c. in tema di temporanea inesigibilità della prestazione, potrebbe costituire un sistema di mitigare il conflitto sociale che inevitabilmente verrà a crearsi nel corso di questo difficilissimo periodo”, questo autore si domanda se sia “maturo il tempo per riflettere sui rimedi manutentivi del rapporto economico e non ragionare solo in termini risolutivi?”.

3. La risposta a quest’ultimo interrogativo non può che essere positiva, seppur con un invito alla maggior ponderazione e cautela possibile, poiché le norme generali sui contratti interessano non solo grandissima parte dei rapporti giuridici, ma soprattutto un enorme numero di tipi e sottotipi contrattuali, estremamente differenziati e che ancor più di differenzieranno nel futuro prossimo, come è facilmente prevedibile.

Una volta che si sia deciso che una simile interferenza nell’autonomia negoziale delle parti meriti di essere introdotta nel nostro ordinamento, si dovrebbe riflettere soprattutto su due punti focali.

Il limite quali/quantitativo dell’eccessiva onerosità (ovvero i suoi presupposti), avendo cura di specificare con chiarezza se questi debbano intendersi in senso oggettivo e soggettivo, nonché i presupposti, il contenuto, i limiti e le modalità di esercizio del potere manipolativo dell’oggetto del contratto che s’intenderebbe attribuire al giudice.

In proposito è bene osservare che quale sia l’effettiva “proporzione tra le prestazioni” di alcuni contratti, stante la complessità e specificità del loro oggetto, risulta già un’impresa tutt’altro che semplice, per non parlare poi dell’individuazione delle manipolazioni di tale oggetto che siano effettivamente idonee a ripristinare l’anzidetta “proporzione”, così ponendo rimedio agli effetti della causa sopravvenuta che ne abbia alterato l’originario onere patrimoniale.

Affidare tali operazioni ad un giurista, per formazione culturale per nulla avvezzo a tali questioni, non sarebbe di certo appropriato: impiegare il criterio della buona fede oggettiva per dirimere una controversia e ristabilire concretamente l’equità patrimoniale di un rapporto contrattuale sono, invero, due operazioni che presentano un contenuto completamente diverso.

Ed anche rimettere quest’ultima ad un ausiliario scelto negli albi formati secondo i criteri dettati dalle vigenti disposizioni di attuazione del codice civile costituirebbe, in molti casi, un vero azzardo, come qualunque giurista che pratichi il foro è in grado di comfermare.

4. La seconda categoria di proposte riguarda invece la responsabilità delle strutture sanitarie e para-sanitarie o assistenziali e degli esercenti delle professioni sanitarie per i danni lamentati dai congiunti delle persone decedute a causa del contagio o di quelle contagiate che abbiano a denunciare un qualche inesatto adempimento delle prestazioni rese loro dalle strutture citate o un illecito dei suddetti professionisti.

A questo proposito è facilmente prevedibile l’insorgere di un diffuso contenzioso, anch’esso tutt’altro che semplice da definire, attesa l’assoluta novità del fenomeno, non solo per le sue dimensioni, ma anche per gli effetti che questo ha prodotto sull’operatività dell’intero servizio sanitario nazionale e della galassia delle strutture socio-assistenziali.

Per di più, si tratterà di un contenzioso, per molte ragioni, gravido di componenti morali laceranti e fortemente divisive, come già oggi alcune iniziative o dichiarazioni di singoli ed associazioni lasciano intravedere.

Pure a questo proposito non mancano le proposte dirette a dirimere i conflitti che si profilano all’orizzonte, alcune delle quali già formulate in termini di emendamenti in sede parlamentare.

Uno di questi, presentato dal Governo, introduce un art. 1 bis nel d. l. n. 18/2020 così formulato:

1. In ragione della novità ed eccezionalità dell’emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del COVID-19, in relazione agli eventi dannosi che in essa abbiano trovato causa, la responsabilità civile delle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche o private, e degli esercenti le professioni sanitarie di cui all’articolo 7 della legge 8 marzo 2017, n. 24, è limitata ai casi in cui l’evento dannoso risulta riconducibile a condotte poste in essere con dolo o colpa grave.

2. Ai fini del comma 1, si considera colpa grave quella consistente nella palese e ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria, nonché dei protocolli o programmi predisposti per fronteggiare la situazione di emergenza. La valutazione della gravità della colpa è operata tenendo in considerazione anche la situazione organizzativa e logistica della struttura in relazione alla novità ed eccezionalità del contesto emergenziale, al numero di pazienti su cui è necessario intervenire e alla gravità delle loro condizioni, alla disponibilità di attrezzature e di personale, nonché al livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore.

3. Per i fatti indicati nell’articolo 590-sexies del codice penale che si siano verificati durante l’emergenza epidemiologica di cui al comma 1 o che in essa abbiano trovato causa, la punibilità è limitata ai soli casi di colpa grave. La colpa si considera grave laddove consista nella palese e ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali eventualmente predisposti per fronteggiare la situazione in essere, tenuto conto di quanto stabilito nell’ultimo periodo del comma 2”.

Non è mancato chi ha, invece, indicato un’altra via.

Tenendo presente la necessità di “tutelare medici ed operatori sanitari che svolgono la propria attività in emergenza presso strutture ospedaliere e nosocomi in tema di protezione dal Covid 19, dovrebbe… esser precluso adire l'Autorità Giudiziaria competente per richiedere l'accertamento della responsabilità professionale con contestuale richiesta di risarcimento del danno da contagio in caso di decesso, per i casi di natura colposa, sia nei confronti dei medici e del personale sanitario, sia nei confronti delle strutture ospedaliere e nosocomi”, mentre “occorrerebbe realizzare un condiviso afflato di responsabilità solidale con la previsione di un indennizzo a favore degli eredi delle vittime da Covid 19 (PASQUALE MAUTONE, Responsabilità sanitaria ai tempi del Covid 19, in RIDARE, 1 aprile 2020).

Ciò con la sottolineatura che “il risarcimento del danno costituisce una materia completamente diversa dall'indennizzo”: mentre quest’ultimo “assume il significato di misura di solidarietà sociale cui non necessariamente si accompagna una funzione assistenziale… il risarcimento del danno trova il proprio presupposto nell'accertamento di una responsabilità colposa o dolosa”.

5. Anche a questo proposito occorrerà riflettere quanto meno su due aspetti, ferma restando l’opportunità di intervenire urgentemente a livello legislativo per ragioni più che evidenti.

Il primo è rappresentato da un dato di esperienza per cui, in tema di responsabilità medica o, meglio, sanitaria (per usare un’espressione più comprensiva), la distinzione tra colpa lieve e colpa grave allo scopo di esonerare da responsabilità gli autori di condotte colpose meno gravi non ha mai avuto fortuna.

O, quanto meno, non ha consentito al legislatore che l’aveva prevista di conseguire gli scopi che si era prefisso.

Basti pensare all’interpretazione riduttiva che la giurisprudenza ha dato al disposto dell’art. 3, comma primo del d. l. n. 158/2012 (cd. legge Balduzzi), così deludendo le attese che i suoi autori si erano proposti.

Nel caso specifico, nemmeno la scelta di ancorare la definizione di “colpa grave” ai parametri indicati dall’emendamento sopra citato sembra poter rappresentare un sicuro lasciapassare affinché l’evidente intento assolutorio del legislatore superi indenne il vaglio di interpretazioni “adeguatrici” da parte delle Corti che sono facilmente prevedibili.

Infatti, non sembra irragionevole ipotizzare che, se questa divenisse la norma eccezionale destinata a regolare la materia, il focus delle controversie si sposterebbe dai limiti oggettivi imposti dalla “situazione organizzativa e logistica della struttura” che, in una situazione di grave emergenza, non potrebbero essere contestati, alla prevedibilità ed evitabilità di tale “situazione” da parte delle strutture sanitarie e sociosanitarie (con riferimento ai loro obblighi organizzativi).

Converrebbe allora prendere almeno in seria considerazione l’ipotesi di una normativa eccezionale imperniata su un sistema di indennizzo cd. no fault (traducibile come “nessuna colpa”) di tutte le categorie di persone che abbiano subito perdite (non patrimoniali ed eventualmente patrimoniali a queste conseguenti) a causa del COVID19, a prescindere dall’accertamento di una qualsiasi responsabilità di strutture o singoli professionisti sanitari o socioassistenziale.

Al riguardo si potrebbe far riferimento all’esperienza ricavabile dalle normative vigenti da tempo in numerosi Paesi, fra le quali, ad esempio, quella dettata dalla legge 4 marzo 2002, n. 203 (cd. loi Kouchner) che in Francia disciplina alcune categorie di danni medici, come le infezioni nosocomiali e i danni da difetto del materiale impiegato, mediante un sistema no fault, alternativo a quello risarcitorio.

I vantaggi di queste soluzioni sono inerenti al fatto che lo spostamento del conflitto in una sede extragiudiziale e l’individuazione di criteri indennitari predeterminati per un verso depotenziano conflitti particolarmente laceranti per i singoli e la comunità e per un altro evitano un gravoso contenzioso giudiziario, riducendo, inoltre, notevolmente i tempi di definizione dei conflitti stessi.

Risultato questo tanto più necessario affinché una comunità nazionale si ponga alle spalle, con le minori ferite possibili, un momento così doloroso per tutti, ma in particolare per alcuni.

Certo, si tratterebbe di una soluzione altamente innovativa per la nostra tradizione giuridica e per una cultura che ha fatto delle liti, anche giudiziarie, una componente stabile della propria convivenza civile, ma c’è da chiedersi se, anche in questa materia, questa luttuosa esperienza non ci offra un’occasione per sperimentare qualche nuova regola per la nostra convivenza e per cambiare alcune delle nostre abitudini.

 

Giampaolo Miotto, Avvocato in Treviso, Coordinatore della Newsletter di APF
 
 

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