De jure condito: epidemia, factum principis e rapporti giuridici contrattuali al tempo del COVID19

09 APRILE 2020 | Numero Speciale COVID-19

1. La situazione di emergenza che stiamo tutti vivendo in questi giorni pone già non pochi problemi sotto il profilo giuridico e diversi altri ne porrà per il futuro.

Alcuni facilmente immaginabili, altri che oggi non riusciamo ancora a figurarci.

Inoltre, diverse questioni ampiamente trattate dalla dottrina e ben note alla giurisprudenza presenteranno aspetti del tutto nuovi, così come per buona parte inediti, quanto meno nelle loro dimensioni, saranno i conflitti di interessi cui questa situazione darà luogo.

Come illustriamo in un’altra parte della nostra newsletter, dal mondo del diritto e dalla realtà sociale già si levano molte voci dirette a sollecitare il legislatore affinché intervenga con una produzione normativa idonea a comporre questi conflitti (cosa tutt’altro che semplice, come insegna la storia del diritto, anche italiano).

Volgendo lo sguardo alle questioni di cui già si discute ed a quelle più facilmente prevedibili, è possibile formulare, senza alcuna pretesa di completezza, una breve rassegna di quelle di maggior interesse e degli orientamenti ricavabili dalla dottrina e dalla giurisprudenza sulla base del diritto vigente.

2. Indubbiamente la questione di più immediata e pressante attualità è quella che riguarda il destino dei contratti stipulati anteriormente all’insorgenza dell’epidemia ed in corso di esecuzione durante il suo sviluppo.

Le regulae juris da applicare alle fattispecie in cui la prestazione di uno dei contraenti divenga (temporaneamente o definitivamente) impossibile si ricavano dal disposto degli artt. 1218 e 1256 c.c..

A norma dell’art. 1218 c.c., l’inadempiente non sarà responsabile dell'inadempimento o del ritardo, qualora provi che questo “é stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

La causa esimente dev’essere sopravvenuta, non imputabile sotto il profilo causale (nemmeno “remotamente”) all’obbligato e tale da determinare un’impossibilità oggettiva ed assoluta di eseguire la prestazione (art. 1218 c.c.): 

L'impossibilità della prestazione derivante da una causa non imputabile al debitore - che, ai sensi dell'art. 1218 c.c., esclude la responsabilità del debitore stesso per inadempimento - non si identifica con una semplice maggiore difficoltà di adempiere ma con una assoluta impossibilità, oggettiva e soggettiva, il cui accertamento è riservato al giudice del merito” (Cass. Civ. n. 07/02/1979, n. 845).

Tale impossibilità determina l’estinzione dell’obbligazione nel caso che la prestazione divenga definitivamente impossibile ovvero quando, perdurando la causa ostativa all’adempimento, “in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla” (art. 1256, I e II comma c.c.), accertamento di fatto pure questo che, in caso di controversia, rientra nei poteri del Giudice del merito.

Se “l'impossibilità è solo temporanea”, l’obbligato, “finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento”, ma deve adempiere non appena l’impossibilità vien meno (art. 1256, II comma c.c.).

Le conseguenze dell’estinzione dell’obbligazione divenuta impossibile sono diversamente regolate dagli artt. 1463 e 1464 c.c., a seconda che questa sia totale o parziale.

Nel primo caso essa produce la risoluzione del contratto, con la conseguenza che “la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità…. non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito”.

Nel secondo, quando solo una parte della prestazione sia diventata impossibile, la legge concede al contraente che ne è creditore la facoltà di scegliere tra “una corrispondente riduzione della prestazione da ess[o] dovuta” ed il recesso “dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale”, e cioè nel caso in cui l’esecuzione solo parziale del contratto ne vanifichi la causa concreta:

"L'impossibilità parziale ha effetto risolutivo solo quando, avuto riguardo all'interesse delle parti, investa l'essenza stessa dell'operazione negoziale, privando il resto, in parte significativa, di utilità o, comunque, mutando significativamente lo scopo perseguito con il negozio, ai sensi degli artt. 1362 e ss., c.c.” (Cass. Civ. 27/02/2017, n. 4939).

3. Questo essendo il panorama normativo, occorre subito precisare che, in realtà, gli eventi che caratterizzano la situazione emergenziale in atto che sono suscettibili di assumere rilievo giuridico ai fini dei rapporti contrattuali sono due, e non uno.

Il primo è costituito dalla situazione pandemica, riconosciuta dall’O.M.S. l’11.3.2020, che implica l’esposizione ad un gravissimo rischio (potenzialmente mortale) i singoli componenti dell’intera comunità nazionale.

Il secondo è rappresentato dalle misure adottate dalle Pubblica Autorità per contenere il contagio, che non solo hanno drasticamente limitato la libertà di movimento delle persone, ma hanno altresì imposto la sospensione delle attività produttive e del terziario ritenute non essenziali.

Trattandosi di eventi affatto inusuali anche per il giurista contemporaneo, la tentazione cui è difficile resistere è quella di qualificare entrambi come cause di forza maggiore, poiché l’epidemia e l’ordine dell’autorità (factum principis) sono enumerati come tali (assieme alla guerra, al terremoto ed alla rivoluzione…) in tutti i manuali di diritto civile.

Ed indubbiamente entrambi gli eventi in questione possono reputarsi tali.

Tuttavia, nella nostra codificazione il caso fortuito (al quale molti, anche se non tutti, assimilano la forza maggiore) gioca un ruolo molto importante in materia di responsabilità extracontrattuale, con riguardo ai casi di responsabilità oggettiva disciplinati dagli artt. 2051 e 2052 c.c., mentre in tema di responsabilità contrattuale riveste un ruolo del tutto residuale (artt.  1693, 1787 e 1839).

Il diritto delle obbligazioni conosce, infatti, la più ampia (ma pure più controversa) nozione di “causa non imputabile” dell’impossibilità della prestazione impiegata dall’art. 1218 c.c..

La problematicità di questo istituto non è rappresentata dalla sua estensione, poiché sicuramente essa comprende pure le tradizionali casistiche che vanno sotto il nome di forza maggiore e caso fortuito, bensì dalla sua interpretazione in senso oggettivistico o soggettivistico che, a sua volta, rimanda al secolare dibattito in corso nella dottrina italiana a proposito del fondamento della responsabilità contrattuale, che i contrapposti orientamenti costruiscono come responsabilità oggettiva o responsabilità per colpa.

L’accoglimento dell’una o dell’altra concezione può avere importanti conseguenze sul piano pratico, poiché, i caratteri propri dell’"impossibilità” della prestazione derivano dal fatto che questa sia dovuta ad una “causa imprevedibile ed inevitabile [che] ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione” (Cass. civ. n. 28992/2019).

E, quindi, in non pochi casi vi è una notevole differenza tra ciò che era oggettivamente ed assolutamente imprevedibile ed inevitabile per tutti e quanto, invece, era in concreto imprevedibile ed inevitabile per quel contraente di quello specifico contatto (pur potendo non esserlo per altri) nel momento in cui questo venne concluso.

La nostra giurisprudenza, che non si è mai posta grandi questioni di inquadramento teorico dell’istituto, verosimilmente ispirandosi a quella linea dottrinale che ricollega il disposto dell’art. 1218 c.c. a quello dell’art. 1176 c.c., in una prospettiva maggiormente sensibile agli aspetti soggettivi della responsabilità contrattuale, pare essere orientata in questa direzione:

La accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta l'assunzione di una prestazione strumentale e accessoria - rispetto a quella principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la patologia del ricoverato - avente a oggetto la salvaguardia della sua incolumità fisica e patrimoniale, quantomeno dalle forme più gravi di aggressione (Nella specie, ha osservato la Suprema corte, comprovata la riconducibilità causale del danno alla salute al fatto della struttura sanitaria, incombeva a detta struttura fornire la prova, della riconducibilità dell'inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, atteso che in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra la insorgenza di una nuova malattia e l'azione o la omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare la impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile e inevitabile con la ordinaria diligenza)” (Cass. civ. 11/11/2019, n. 28989).

Inoltre, è bene sottolineare come in dottrina non pochi abbiano sostenuto che il metro di giudizio dell’”impossibilità” dovrebbe variare a seconda “della specificità dell’obbligazione dedotta in obbligazione” perché l’apprezzamento da compiere “quando è in ballo una prestazione consistente nel dare una cosa certa determinata non può essere analogo a quello relativo a prestazioni di fare o di non fare” (GRISI, Delle obbligazioni in generale, in Commentario del Codice civile diretto da Gabrielli, Delle obbligazioni, artt, 1218-1276 c.c., Torino, 2013, 46).

Fra i fatti che la dottrina è solita annoverare con certezza fra le cause di impossibilità non imputabile della prestazione rientra certamente l’”ordine dell’autorità - altrimenti detto factum principis - ... ove imprevedibile al momento dell’insorgenza dell’obbligazione”, se “non imputabile al debitore (ovverosia non ricollegabile casualmente affatto od atto di costui) e ne da quest’ultimo ovviabile (vale a dire insuperabile mediante leciti accorgimenti)” (GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 2004, 65).

La giurisprudenza è tuttora allineata a questo insegnamento dottrinale (Cass. civ. n. 14915/2018, 13142/2018).

4. La rilevanza dei due eventi anzidetti ai fini dei singoli rapporti contrattuali dovrà essere, quindi, esaminata alla luce di questi principi giuridici.

Sembra chiaro che i provvedimenti delle Autorità che impongono la sospensione di specifiche attività produttive e del settore terziario, rappresentano un factum principis che potrà essere invocato dagli obbligati la cui attività sia stata vietata quale causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione ad essi non imputabile, con conseguente esonero da responsabilità da inadempimento o da ritardo nell’esecuzione della prestazione, ex art 1218 c.c.

Ed eventuale risolubilità del contratto, ove ne ricorrano le condizioni previste dagli artt. 1463 e 1464 c.c..

Con riguardo ai contratti di diritto internazionale (le cui clausole sovente fanno riferimento alla “forza maggiore” o rinviano ad accordi che la prevedono ovvero all’art. 7.1.7 dei Principi UNIDROIT aggiornati al 31 dicembre 2013), la circolare del 25 marzo 2020 del Ministero dello sviluppo economico ha autorizzato le Camere di commercio a rilasciare “quale documento a supporto del commercio internazionale… dichiarazioni in lingua inglese sullo stato di emergenza in Italia conseguente all’emergenza epidemiologica da COVID-19 e sulle restrizioni imposte dalla legge per il contenimento dell'epidemia…”, nonché “di aver ricevuto, dall'impresa richiedente il medesimo documento, una dichiarazione in cui, facendo riferimento alle restrizioni disposte dalle Autorità di governo e allo stato di emergenza in atto, l’impresa medesima afferma di non aver potuto assolvere nei tempi agli obblighi contrattuali precedentemente assunti per motivi imprevedibili e indipendenti dalla volontà e capacità aziendale”.

Da verificare, ma tutt’altro che trascurabile, sarà invece la rilevanza ai fini dell’art. 1218 c.c. di quegli altri provvedimenti dell’Autorità, non totalmente impeditivi di altre attività, ma fortemente restrittivi della loro operatività o della libertà di movimento di coloro che vi prestano la propria attività lavorativa o dei loro fornitori, laddove questa risulti rilevante ai fini della specifica prestazione considerata.

Potranno esservi casi in cui tali divieti siano insuperabili per l’obbligato, nonostante l’impiego della diligenza dovuta, tenendo conto della natura e dell’oggetto della prestazione e delle caratteristiche dell’attività produttiva o di servizio che egli svolge.

Mentre in altri casi, seppur con difficoltà, essi saranno superabili, ed allora l’obbligato non sarà liberato dalla prestazione dovuta, poiché l’”impossibilità” sopravvenuta di quest’ultima “non può consistere nella semplice difficoltà” della sua esecuzione (Cass. civ. n. 7604/1996).

Egualmente controvertibile potrebbe essere, poi, la valenza liberatoria, ai fini dell’art. 1218 c.c., del diverso evento costituito dall’epidemia in sé considerata.

Stanti il suo carattere pandemico, l’elevato rischio di contagio, la sua innegabile straordinarietà, conseguente anche al protratto stravolgimento dei normali rapporti sociali, anch’essa rappresenta un evento di certo non ordinario ed evitabile, né prevedibile da tutti.

Le cui conseguenze potrebbero essere ritenute di per sé sole suscettibili di rendere “impossibili” determinate prestazioni contrattuali.

Ma anche in questo caso, ovviamente, sarà necessaria una valutazione da compiersi caso per caso.

Ed anche sulla base di dati che oggi non sono tutti facilmente conoscibili.

Per fare un esempio, a questo proposito occorre considerare che da tempo l’O.M.S. annovera quello pandemico tra i maggiori rischi globali e che, pertanto, queste previsioni potrebbero divenire oggetto dell’anzidetta valutazione con riguardo ad alcune categorie di contratti e di prestazioni, avute presenti le qualità soggettive dei contraenti, da implicare che essi conoscessero (o potessero conoscere con l’ordinaria diligenza) l’esistenza di un simile rischio.

Si tratterà, in ogni caso, di valutazioni non così semplici, dovendosi decidere se l’obbligato, nel momento in cui stipulò il contratto, usando la dovuta diligenza, potesse prevedere il verificarsi dell’evento pandemico, non già quale rischio remoto di possibile avveramento in un futuro indefinito, ma quale rischio attuale e concreto, il cui avveramento avrebbe potuto concretizzarsi al tempo in cui la prestazione pattuita avrebbe dovuto essere eseguita.

In definitiva, la concreta configurabilità dell’evento pandemico come causa di esonero dalla responsabilità contrattuale dell’obbligato verosimilmente dovrebbe essere valutata caso per caso, in relazione al singolo contratto, alla specifica prestazione considerata ed alle qualità “personali” dei contraenti.

5. A queste considerazioni occorre aggiungere che la decretazione d’urgenza cui ci stiamo ormai abituando ha coniato, fra le altre, una disposizione della quale si discute molto in questi giorni.

Si tratta dell’art. 91 del d. l. n. 18/2020, che ha modificato l’art. 3 del d. l. n. 6/2020 convertito in l. n. 13/2020, aggiungendovi un comma 6 bis, rubricato “disposizioni in materia ritardi o inadempimenti   contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici”, e del seguente tenore:

"6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti".

La portata di questa disposizione è stata da alcuni sopravvalutata.

Anzitutto, essa si riferisce ai soli contratti pubblici, circostanza che pare esser sfuggita a più di qualcuno.

Ma, anche volendone postulare un’interpretazione analogica che ne estenda gli effetti ai contratti di diritto privato, non può che esserle attribuito il significato di prescrivere al Giudice del merito di valutare se “il rispetto delle misure” indicate in quel decreto possa integrare un fatto tale da configurare una causa di inadempimento non imputabile all’obbligato, rimettendogli quell’accertamento di fatto che già gli appartiene, ogniqualvolta debba egli decidere se l’obbligato stesso abbia offerto la prova richiestagli dall’art. 1218 c.c..

In altre parole, la norma così dettata non prevede una presunzione (assoluta o relativa) per cui il rispetto delle misure indicate debba considerarsi quale causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile all’obbligato, ma si limita a prescrivere che il Giudice debba valutare se essa possa considerarsi tale.

Il richiamo all’art. 1223 c.c. (“Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”) pare alludere ai casi in cui, pur sussistendo la responsabilità dell’obbligato per l’inadempimento o il ritardo, questa abbia concorso con la necessitata osservanza da parte sua delle misure restrittive previste dal decreto, così prescrivendosi al Giudice di tenerne conto (sotto il profilo causale) ai fini di una proporzionata riduzione del risarcimento del danno conseguitone.

6. La decretazione d’urgenza ha però stabilito (apparentemente) la risoluzione per impossibilità sopravvenuta non imputabile di alcune particolari categorie di contratti.

Anzitutto, l’art. 9 del d. l. n. 9/2020 ha previso che “ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1463 del codice civile, ricorre la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta in relazione ai contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo, nelle acque interne o terrestre” stipulati da alcune categorie di soggetti che vengano a trovarsi in particolari situazioni determinate dall’emergenza in atto.

In realtà, con riguardo ad alcuni di questi casi, il riferimento al disposto dell’art. 1463 c.c. è improprio, poiché riguardo ad essi non si verifica tanto l’impossibilità del vettore di eseguire la prestazione prevista dal contratto, quanto quella del viaggiatore di poterne fruire, come avviene, ad esempio, per coloro “nei confronti dei  quali  è  stata  disposta  la quarantena con sorveglianza attiva ovvero la  permanenza  domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva da parte dell'autorità  sanitaria competente”.

Per cui, in questi casi, in realtà, la norma ha previsto un’ipotesi di risoluzione del contratto del tutto nuova per il nostro ordinamento, poiché trova fondamento nell’impossibilità del creditore della prestazione di valersene e, quindi, nel venir meno del suo interesse all’esecuzione del contratto.

Il disposto del citato art. 9 del d. l. n. 9/20 è stato poi esteso dall’art. 88 del d. l. n. 18/2020 ad altre fattispecie: a) “ai contratti di soggiorno per i quali si sia verificata l'impossibilità sopravvenuta della prestazione a seguito dei provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 3 del decreto legge 23 febbraio 2020 n.6”; b) “ai  contratti  di  acquisto  di  titoli  di  accesso  per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici  e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei  e  agli  altri  luoghi della cultura”.

Tanto il d. l. n. 9/2020 che il n. 18/2020 nominalmente prevedono la risoluzione dei contratti in questione, ma, come si è anticipato, in realtà, così non è.

Infatti, entrambe le disposizioni stabiliscono che i viaggiatori o gli acquirenti dei servizi anzidetti debbano presentare al vettore o al venditore di questi “entro trenta giorni” da un dies a quo variamente determinato dalle norme in esame, cui non consegue però la risoluzione del contratto, bensì la modifica del suo oggetto, poiché, in tal caso, l’altro contraente dovrà emettere “un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno dall'emissione”.

Al netto delle improprietà linguistiche dell’enunciato, alle quali ormai il nostro legislatore ci ha abituato, è chiaro che il rimedio così approntato non ha natura risolutoria, bensì “manutentiva” dell’oggetto del contratto, poiché ne conserva l’efficacia, pur mutandone il contenuto.

Si tratta, dunque, di un’interessantissima anticipazione di quei “rimedi manutentivi”, diretti a produrre una reductio ad aequitatem del contratto il cui equilibrio sinallagmatico sia stato alterato da eventi sopravvenuti non imputabili ai contraenti, di cui da tempo una parte della dottrina invoca l’introduzione nel nostro ordinamento.

7. Occorre poi considerare che, per i soli “contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita”, l’art. 1467 c.c. tutela col rimedio risolutorio quel contraente che sia gravato di una “prestazione… divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili”, salvo che tale onerosità rientri “nell'alea normale del contratto”, e comunque consentendo all’altro contraente di offrire una reductio ad aequitatem delle condizioni contrattuali.

Ai fini dell’eccessiva onerosità ha, quindi, rilievo ogni evento il cui rischio, per la sua improbabilità, non poteva esser considerato dai paciscenti nel momento in cui il contratto venne stipulato, sì da non esser implicato nella “normale alea” di quel tipo contrattuale, costituendo un fatto oggettivamente straordinario e soggettivamente imprevedibile:

L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell'art. 1467 c.c., la risoluzione del contratto richiede la sussistenza di due necessari requisiti: da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto, dall'altro, la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell'ambito della normale alea contrattuale. Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l'intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza” (Cass. Civ., 19/10/2006, n.22396).

In questo caso, pertanto, la giurisprudenza è sicura nell’attribuire un carattere spiccatamente soggettivo al requisito dell’imprevedibilità del fatto sopravvenuto, al quale fa da riscontro, come si è visto, quello oggettivo della straordinarietà.

Ed anche in questa ipotesi, dunque, può darsi il caso che la sospensione dell’attività svolta dall’obbligato per ordine dell’autorità ovvero le complicazioni e difficoltà che questa debba soffrire a causa di altre misure imposte dall’autorità stessa o dall’evento pandemico in sé considerato generino un tale aggravio della prestazione pattuita da renderla eccessivamente onerosa.

Ed, in tal caso, il contraente che domandi la risoluzione contrattuale dovrà provare tanto i presupposti di fatto causativi di tale aggravio, così come la loro straordinarietà ed imprevedibilità (nei termini indicati dalla massima testé citata), quanto l’eccessività dell’onere necessario per eseguire la prestazione, così come determinata dal fatto sopravvenuto.

8. Due temi scottanti, in materia di responsabilità contrattuale, saranno indubbiamente quelli relativi alla responsabilità delle strutture sanitarie pubbliche e private e a quella delle residenze sanitarie assistenziali ed alle Case di riposo.

Quanto alle prime, non potrà certo ipotizzarsi una liberazione dalle obbligazioni di diagnosi e cura che loro competono, e dai relativi obblighi di diligenza, se non per i pazienti che vi fossero già degenti prima del diffondersi dell’epidemia, per i quali soli quest’ultima potrebbe aver rappresentato una “causa sopravvenuta” al contratto di spedalità stipulato in precedenza, della quale sarebbe quindi essere possibile valutare se abbia effettivamente reso impossibile l’esatto adempimento della struttura per ragioni ad essa non imputabili.

Per tutti gli altri pazienti, che a tali strutture si siano rivolti non già prima del propagarsi del contagio, ma proprio a causa di questo, non potrebbe certo ipotizzarsi, invece, nemmeno in linea teorica, un’impossibilità sopravvenuta della prestazione sanitaria rilevante ai fini dell’art. 1218 c.c..

L’unica possibilità di mettere in discussione la responsabilità relativa ad un inadempimento indubbiamente verificatosi (ad esempio: per l’omesso ricovero del paziente o per il suo omesso o ritardato trasferimento in un reparto di terapia intensiva a causa dell’esaurimento dei posti-letto disponibili, per la contrazione del contagio durante una degenza ospedaliera iniziata nel pieno dell’emergenza epidemica, ovvero per l’inadeguatezza delle cure prestategli…) rimarrebbe allora affidata all’interazione di quanto prescrive il secondo comma dell’art. 1176 c.c. al riguardo dell’obbligo di diligenza del debitore della prestazione professionale e quello di buona fede che l’art. 1175 c.c. impone pure al creditore di questa.

Si tratta, con ogni evidenza, di una questione estremamente delicata e complessa, la cui trattazione esula dai limiti del presente lavoro e richiederebbe ben altro impegno.

E, tuttavia, non pare inutile rammentare che, anche in materia di responsabilità sanitaria, la giurisprudenza ha più volte mostrato di attribuire rilievo alle “circostanze concrete” in cui il professionista medico si trovi ad operare, pure con riguardo alle carenze tecniche ed organizzative della struttura in cui eserciti la propria attività.

In proposito la Cassazione ha, ad esempio, osservato che “la difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista [nel caso: un medico specialista] vanno valutate in concreto, rapportandole al livello di specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua disposizione, sicchè il medesimo… deve adottare tutte le misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell'intervento, e laddove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, financo consigliandogli, se manca l'urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea”  (Cass. civ. 9/10/2012, n. 17143).

In tal modo la giurisprudenza ha mostrato di ritenere che anche la diligenza richiesta al debitore della prestazione non è insensibile alle concrete condizioni in cui questi concretamente presta la propria opera.

E pure la dottrina, a questo proposito, ha sottolineato i rapporti fra obbligo di diligenza ed obbligo di buona fede: “Ora… il criterio della diligenza… opera in un contesto che presuppone già definita (col presidio del criterio della buona fede) la misura del vincolo, il quantum di mezzi con i quali il debitore si è obbligato a procurare l’utilità promessa” (ROVELLI, Delle obbligazioni in generale, in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, artt. 1173-1273, Torino, 2012, 205).

Anche per i giuristi il fenomeno pandemico ha determinato una situazione del tutto nuova, che non conosce precedenti giurisprudenziali, né adeguati studi dottrinali.

Questa novità non autorizza facili parallelismi con precedenti giurisprudenziali riguardanti fatti completamente diversi, ma proprio la straordinaria rilevanza del fenomeno legittima una ponderata riflessione sui limiti degli obblighi di diligenza in una situazione simile.

Ciò tenendo presente che le strutture sanitarie e i singoli professionisti in queste operanti si sono trovati ad affrontare un agente patogeno pressoché sconosciuto e a tal punto dilagante da aver ben presto messo in crisi non già una o poche strutture, ma quello che (nonostante tutto) rappresenta uno dei migliori sistemi sanitari del mondo (secondo la “classifica Bloomberg” 2018, il servizio sanitario italiano è il quarto per efficienza nel mondo).

Sotto questo profilo al giurista non potrebbero quindi sfuggire da un lato la novità e straordinarietà del fenomeno e dall’altro le sue dimensioni quantitative e la sua rapidissima diffusione.

Queste caratteristiche dell’evento pandemico hanno creato una situazione caratterizzata già al suo insorgere da gravissime difficoltà e che, col suo subitaneo dilagare, ed ha poi conosciuto un protratto stato emergenziale, per l’enorme numero di malati, molti dei quali in condizioni gravi, determinando gravissime carenze di personale, mezzi tecnici (d.p.i., “tamponi”, reagenti chimici, ventilatori…) e posti-letto, soprattutto in reparti di alta specializzazione, come quelli di terapia intensiva e subintensiva.

Ora, si potrebbe sostenere che il paziente rivoltosi al medico o alla struttura sanitaria in questa situazione, ben consapevole delle circostanze che la caratterizzavano, sia divenuto creditore di una prestazione sorta in una situazione emergenziale caratterizzata da limiti operativi oggettivamente incontestabili, tale quindi da aver contribuito a determinare la misura dell’obbligo di diligenza che il medico o la struttura erano tenuti ad osservare in termini compatibili con simili circostanze.

In proposito parrebbe potersi parlare di una “diligenza dell’emergenza”.

Di certo, il giurista che si troverà un giorno a dover dirimere le controversie insorte al riguardo dell’esatto adempimento delle obbligazioni in questione ed alle conseguenti pretese risarcitorie non potrà omettere di considerare tali circostanze.

Di fronte ad un compito così gravoso, sorge allora spontaneo l’auspicio che il legislatore intervenga, magari con una normativa di carattere straordinario che, tra le varie ipotesi, potrebbe prevedere soluzioni di indennizzo no fault, sostituivo del risarcimento del danno e da attribuirsi a tutti i consociati che abbiano subito un pregiudizio a causa dell’epidemia, a prescindere dall’accertamento di una responsabilità di chicchessia. 

Quanto, invece, alle residenze sanitarie assistite ed alle Case di riposo, considerato che il contagio ha riguardato pazienti ed ospiti che già vi dimoravano, apparirebbe possibile, in linea di principio, il ricorso al disposto dell’art. 1218 c.c..

Riguardo al quale, tuttavia, si prospettano valutazioni non meno delicate e complesse in merito all’imprevedibilità ed inevitabilità del diffondersi del contagio, quale causa dell’eventuale inadempimento (o inesatto adempimento) delle obbligazioni che loro competevano, e ciò anche con riguardo alla tempestività ed all’efficacia delle misure in concreto adottate da ciascuna di esse per prevenire e poi contrastare il diffondersi dell’epidemia.

Anche a questo proposito, seppur con i necessari adattamenti alle caratteristiche proprie delle singole strutture, a volte sensibilmente diversificate, possono riproporsi le considerazioni già formulate per le strutture ed i professionisti sanitari, in quanto rilevanti ai fini di valutare l’imputabilità o meno di eventuali inadempimenti (o inesatti adempimenti) dovuti alla causa esogena del diffondersi del contagio epidemico in tali ambienti circoscritti.

 

Giampaolo Miotto, Avvocato in Treviso, Coordinatore della Newsletter di APF

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