I detenuti e il Covid-19

09 APRILE 2020 | Numero Speciale COVID-19

L’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno di recente chiesto agli Stati Nazionali di adottare misure urgenti per tutelare la salute e la sicurezza dei detenuti e dei migranti che si trovano nei centri per il rimpatrio e negli hotspot, nell’ambito delle misure per il contenimento della diffusione della pandemia da Covid-19.

Le indicazioni istituzionali sono correlate alla situazione di cronico sovraffollamento delle strutture di “accoglienza” e reclusione, e dalla presenza di casi di positività sia tra i detenuti e i migranti, sia tra la polizia penitenziaria e più in generale tra gli operatori penitenziari.

Il sovraffollamento non rende possibile, infatti, il rispetto della distanza di sicurezza minima tra persone prescritta dalle organizzazioni sanitarie come misura indefettibile per impedire la trasmissibilità del virus, cui si aggiunge la promiscuità nell’uso di vari ambienti, e l’assenza di forme di igiene ambientale idonee ed efficaci a contrastare il virus.

La situazione italiana è da anni critica, perché la popolazione carceraria è di molto superiore alla capienza legale, circostanza che ha determinato già due condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2009 e nel 2013.

Secondo i dati diffusi dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nel corrente mese di aprile 2020 la popolazione carceraria ha raggiunto la soglia di 56.830 detenuti (all’inizio dell’anno 2020 secondo i dati forniti dal Ministero di Grazia e Giustizia erano 61.230) a fronte di una capienza di 47.000 posti regolari.

È noto che in Italia da decenni non si costruiscono nuove carceri e alcune, per il loro stato, sono state anche dismesse (come l’Asinara e Pianosa).

Il richiamo dell’Onu è, quindi, al rispetto dei diritti dell’Uomo e all’adozione di misure adeguate a prevenire il contagio, quale ad es. il decongestionamento delle carceri. Anche il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti incardinato presso il Consiglio d’Europa ha esortato gli Stati membri a ricorrere a misure alternative alla privazione della libertà, e a misure meno afflittive della custodia cautelare, alla commutazione della pena o al rilascio anticipato.

Voci di esortazione si sono di recente e autorevolmente levate nello stesso senso in Italia, dal Presidente della Repubblica a Papa Francesco, da alcuni settori dell’avvocatura (tra cui l’Associazione italiana dei professori di diritto penale) ad ampi settori della magistratura.

L’urgenza della valutazione della situazione è determinata dal fatto che il propagarsi del contagio nelle strutture di detenzione non attiene solo alla salvaguardia della salute dei detenuti, ma riguarda anche e soprattutto gli operatori carcerari, fra cui la polizia carceraria: il “distanziamento sociale” nelle strutture di detenzione per le loro stesse caratteristiche è destinato a rimanere un ossimoro linguistico. 

La complessità della riflessione deve tener conto di come, in assenza di misure concrete ed efficaci di contenimento e prevenzione, potrebbe essere strutturato un intervento di cura su larga scala per i detenuti contagiati in presenza di situazioni di gravità sanitaria, dei luoghi in cui ricoverarli, essendo molti presidi ospedalieri già al collasso, con quali misure di sicurezza, considerato che, a parte la scarsità di posti e attrezzature rianimatorie, tali misure prevederebbero la presenza di agenti di polizia penitenziaria, per i quali peraltro si porrebbe un serissimo problema di esposizione al contagio. 

I tecnici sul punto paiono concordi: si rischia una sottovalutazione dei pericoli di contagio all’interno degli istituti penitenziari, perché è impossibile assicurare dentro le carceri il distanziamento sociale e le altre misure necessarie alla profilassi Covid – 19. I detenuti condividono le celle, condividono i servizi, consumano i pasti insieme nelle celle. In altre parole quell’assembramento che per legge tutti devono evitare e che sta oggi imponendo alla società di restare a casa, nelle carceri è inevitabile.

Utile forse è fotografare la situazione dei detenuti sulla quale si innesta oggi la problematica pandemica: l’11% soffre di epatite, il 30% sono tossicodipendenti che soffrono crisi di astinenza, il 40% soffre di disturbi psichiatrici, un terzo delle celle manca di acqua calda, metà delle celle non ha docce. Inoltre, nelle carceri lavorano 38.000 agenti penitenziari.

Il carcere è dietro un muro, oltre al quale non è possibile dirigere lo sguardo, è un “altrove”: il cittadino rischia quindi di non cogliere il fatto che di fronte ad una pandemia non è possibile tenerlo separato dal resto della società, il virus vi penetra nonostante quel muro ed è anche in grado di riuscire dal carcere e di diffondersi da qui al resto della società.

Sul piano giuridico è evidente che le persone private della libertà personale soggiacciono strutturalmente al potere decisionale altrui, ma il loro diritto alla salute permane un obbligo giuridico per lo Stato che può punire, ma non uccidere (né esporre ad un rischio letale). La nostra Carta Costituzionale e il nostro ordinamento giuridico non sono altrimenti interpretabili. Ed è lo stesso obbligo di tutela che lo Stato ha nei confronti di tutti i cittadini. Pertanto per lo stesso principio di legalità, si rende doverosa ed urgente una riflessione tecnica in termini di prevenzione anche nell’ambito delle strutture carcerarie.

Il “dato tecnico” oggi ha assunto un valore preminente per la società “fuori” dal carcere e dovrebbe, quindi, allo stesso modo ispirare la decisione politica sulla situazione carceraria, senza divisioni pregiudiziali tra chi invoca clemenza e chi reclama il rigore nell’esecuzione della pena. Oggi non è questo il tema, ma la pandemia e la diffusione del virus Covid-19. 

Lo dimostra il fatto che a livello internazionale Stati con ordinamenti molto diversi fra loro, come la Francia e la Turchia, la Libia, l’Indonesia o l’Iran (per citarne solo alcuni), stanno adottando provvedimenti di scarcerazione massiccia dei detenuti. In altre parole, a situazioni straordinarie, conseguono riflessioni e misure straordinarie, tenuto peraltro conto che in Italia ci sono 20.000 detenuti che stanno scontando pene inferiore ai 3 anni. 

L’unico intervento sinora adottato dal governo pare invece insufficiente ed inadeguato a fronteggiare l’emergenza sanitaria e carceraria sopra descritta.

Infatti, la misura alternativa della detenzione domiciliare prevista dall’art. 123 del decreto legge n. 18/2020, sul modello di un beneficio già esistente (l’espiazione della pena al domicilio di cui alla L. 199/10) ha un ambito di applicazione assai modesto, in quanto applicabile solo per le pene detentive, anche residue, di 18 mesi, ed è inoltre limitata da ulteriori preclusioni soggettive non previste dalla L. 199/10 (in relazione al titolo di reato e collegate alla negativa condotta carceraria). La misura alternativa di cui trattasi prevede inoltre l’obbligatorio uso dei braccialetti elettronici, ove il detenuto vi consenta, per le pene superiori a 6 mesi. 

Ad oggi, inoltre, non è ancora stato emesso il decreto interdipartimentale tra il Capo della Polizia e il Capo dell’Amministrazione penitenziaria per definire le modalità di disponibilità e implementazione dei braccialetti elettronici, e peraltro parrebbe discutibile imporre l’uso dei braccialetti elettronici (di cui in questo momento sarebbero disponibili solo alcune migliaia) in un momento in cui la maggioranza della popolazione è confinata in casa e le città sono presidiate massicciamente dalle forze di polizia. 

Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha, quindi, reiteratamente ammonito in questi giorni sulla necessità di intervenire con strumenti più incisivi di natura legislativa, e di svincolare l’adozione della misura prevista nel decreto dall’effettiva applicazione del braccialetto elettronico. 

Come prevedibile, infatti, l’effetto dell’unica misura alternativa disposta dal Governo è stato irrisorio e i dati delle scarcerazioni desumibili dai comunicati del Garante nazionale (vedi dichiarazioni del 2 e 3 aprile 2020) indicano una diminuzione del numero dei detenuti (57.097 nel primo e 56.830 nel secondo) attribuibili a tutti i provvedimenti emessi dalla magistratura di sorveglianza con effetto liberatorio, e non solo al beneficio penitenziario da ultimo previsto con il d.l. n. 18/2020. 

Per questi motivi, in questi giorni vi sono stati vari interventi dell’avvocatura penale, di una parte della magistratura e della società civile per sollecitare l’adozione, in tempi brevi, di adeguate disposizioni normative al fine di affrontare in questo periodo emergenziale il problema del sovraffollamento carcerario. 

Tra le proposte vi è quella che prevede l’applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare per coloro che hanno una pena residua di due/tre anni, superando le preclusioni ad oggi previste in relazione al titolo di reato, fermo restando il divieto di concessione per le condanne afferenti i reati più gravi di cui all’art. 4 bis primo comma L. n. 354/75. 

Questa soluzione non integra un indulto, perché non elimina la pena, ma si limita ad ampliare l’ambito di concessione di una misura alternativa già prevista nell’ordinamento penitenziario e che presuppone un vaglio di pericolosità sociale in relazione ad ogni singola posizione da parte della magistratura di sorveglianza. Questa misura straordinaria potrebbe valere inoltre per la sola durata dell’emergenza: si tratterebbe di un giusto punto di equilibrio tra l’emergenza Covid-19 e il principio della certezza della pena.

Necessario è poi anche limitare il numero dei nuovi ingressi in carcere, così come autorevolmente sostenuto in un documento del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione datato 1.4.2020, che sollecita tutti i Pubblici Ministeri ad una riflessione sulla extrema ratio della misura cautelare della custodia in carcere e sulla possibilità di un differimento “ragionato” per la durata dell’emergenza, dell’esecuzione degli ordini di carcerazione. 

Tutte queste tematiche sono all’ordine del giorno in sede di conversione parlamentare del decreto legge n. 18/2020, anche se l’emendamento presentato dal governo in data 27 marzo non prevede modifiche significative quanto agli strumenti per affrontare il sovraffollamento carcerario. 

Va detto, infine, che anche il Consiglio Superiore della Magistratura nel parere reso su tale decreto aveva “auspicato soluzioni volte a ridurre il sovraffollamento delle carceri, ivi compresi interventi volti a differire per la durata dell’emergenza, l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi per reati non gravi”.   

 

Cristina Arata, Avvocato in Castelfranco Veneto 

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