La Corte di Cassazione ribadisce importanti principi in merito alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità e ai diritti e doveri che ne derivano

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 28330/2020, ha chiarito e ribadito importanti principi in merito alla dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità), al diritto di risarcimento dei danni patiti dal figlio per l’assenza della figura genitoriale, nonché in merito al diritto di regresso dell’altro genitore per le spese sostenute per il figlio.  
Nel caso esaminato, Tizia aveva proposto azione per la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di Caio, dopo che tale azione era stata dichiarata ammissibile con sentenza della Corte di Cassazione, e aveva formulato domanda di risarcimento, assumendo danni esistenziali ed alla vita di relazione per l’assenza della figura paterna. All’udienza di prima trattazione spiegava intervento volontario la madre dell’attrice, chiedendo sia l’accoglimento della domanda principale di dichiarazione giudiziale di paternità, sia la condanna del convenuto al rimborso della quota delle spese che aveva sostenute per il mantenimento della figlia sin dalla nascita. 
Si costituiva in giudizio Caio, chiedendo il rigetto di tutte le domande avversarie.
Il Tribunale di Bari accoglieva la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, condannando Caio sia al risarcimento del danno alla figlia, sia al rimborso, pro quota, delle spese sostenute dalla madre per la figlia.
Caio proponeva appello avverso la sentenza, mentre la figlia e sua madre proponevano appello incidentale. La Corte d’appello di Bari respingeva tutti gli appelli, confermando la decisione di primo grado. Caio proponeva allora ricorso per cassazione, formulando dieci motivi di impugnazione.
Innanzitutto, con uno di questi, il ricorrente eccepiva la decadenza dall’azione di accertamento della paternità per decorrenza del termine ex art. 133 bis disp. att. c.p.c., perché introdotta oltre i sei mesi dalla sentenza della Corte di Cassazione che aveva dichiarato l’ammissibilità dell’azione. 
La Corte di Cassazione ha rigettato il motivo, confermando il principio secondo il quale il giudizio sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione della paternità naturale e il successivo giudizio di merito sono autonomi, e pertanto l’azione introduttiva del giudizio di cognizione piena non è soggetta al termine di sei mesi dalla riassunzione (Cass. civ. n. 11035/1996).
Il ricorrente si doleva, poi, del fatto che fosse stato dichiarato ammissibile l’intervento volontario della madre dell’attrice.
Ma la Suprema Corte ha rigettato anche tale motivo, affermando che “in tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’accertamento non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale ai sensi dell’art. 276, ultimo comma, c.c., non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio, potendo peraltro essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorchè sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio” (Cass. civ. n. 6025/2015).
Il ricorrente denunciava, inoltre, l’illegittimo esercizio del potere di disporre d’ufficio la CTU ematologica, nonostante la rinuncia della parte che ne aveva interesse, e l’omesso esame del fatto decisivo costituito dalla legittimità del suo rifiuto di sottoporsi a consulenza ematologica, sostenendo di aver esercitato un suo diritto di libertà e dolendosi della violazione del suo diritto di difesa.
La Corte di Cassazione ha respinto anche questi motivi di ricorso, evidenziando che la decisione di avvalersi di una CTU “attiene al potere che il giudice può esercitare per acquisire elementi utili a definire la vicenda dedotta in giudizio e non è rinunciabile da alcuna delle parti” e che le indagini ematologiche e genetiche, affidate al consulente d’ufficio, “costituiscono il più valido strumento per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione”.

La Suprema Corte ha, inoltre, evidenziato che, secondo giurisprudenza di legittimità costante, “nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione alla libertà personale del preteso padre, che conserva piena determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una violazione del diritto alla riservatezza, essendo rivolto l’uso dei dati  nell’ambito del giudizio solo ai fini della giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali” (Cass. civ. n. 11223/2014).

Caio si doleva, poi, del fatto che la sentenza impugnata avesse ritenuto ammissibile l’azione risarcitoria proposta dalla figlia prima dell’accertamento dello status con sentenza passata in giudicato o, quanto meno, attribuendone efficacia ex tunc dalla nascita, facendo così retroagire la responsabilità ad un momento anteriore all’accertamento della colpevolezza del convenuto. 
La Corte di Cassazione ha respinto anche questo motivo, sottolineando che “la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti; questa, pertanto, può dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”.
La Suprema Corte, inoltre, specifica che “l’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicchè nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuti perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori”.
Il ricorrente ha poi sostenuto che, anche ove ritenute ammissibili, sia la domanda risarcitoria della figlia che quella di rivalsa della madre avrebbero dovuto essere respinte per intervenuta prescrizione decorrente per la prima dalla data di nascita, per la seconda dalla data dai relativi esborsi. 

La Corte di Cassazione ha dichiarato infondato anche questo motivo, in quanto “l’accertamento dello status di figlio naturale costituisce il presupposto per l’esercizio dei diritti connessi a tale status, perché prima di tale momento non vi è pronuncia sullo status” e, quindi, “la domanda risarcitoria da parte del figlio e quella di rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del figlio da parte del genitore coobbligato presuppongono tale accertamento e non sono utilmente azionabili se non dal momento in cui diviene definitiva la sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale”.

La Suprema Corte, con la decisione in esame, ha rigettato quindi tutti i motivi del ricorso di Caio, tranne uno, ovvero quello relativo alla nullità della sentenza impugnata per mancanza di motivazione, per aver omesso la Corte d’appello di pronunciarsi sulle censure che investivano l’an e il quantum dell’ammontare liquidato nella sentenza di primo grado a titolo di risarcimento e di rivalsa, ed ha pertanto cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di appello di Bari solo in relazione a tale specifico oggetto.

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