Accesso agli atti: il Consiglio di Stato rileva un conflitto in seno alle sue Sezioni e rimette la questione all’Adunanza plenaria

La quarta sezione del Consiglio di Stato è stata adita dall’Agenzia delle Entrate con ricorso avverso una sentenza del TAR Campania, sede di Napoli, inerente ad una questione che abbiamo già analizzato in questa newsletter: il rapporto fra la procedura di accesso agli atti e ai documenti amministrativi ai sensi della legge 241/1990 e la procedura disciplinata dal combinato disposto fra gli artt. 155 sexies disp. att. c.p.c. e 492 bis c.p.c.
Il caso riguarda un’istanza di accesso agli atti presentata all’Agenzia delle Entrate, con le forme della legge sull’accesso ai documenti amministrativi, formulata per ricostruire la situazione reddituale e patrimoniale dell’ex convivente dell’istante nonché madre del loro figlio minorenne. In particolare, la richiesta aveva ad oggetto: “le dichiarazioni dei redditi relative agli ultimi tre anni o la certificazione reddituale dei dati presenti nell’archivio dell’anagrafe tributaria, i contratti di locazione di beni immobili a terzi, le comunicazioni inviate dagli operatori finanziari all’anagrafe tributaria relative ai rapporti continuativi e alle operazioni di natura finanziaria, relativi all’ex convivente”.
L’istante aveva ottenuto un riscontro solo parziale, vedendosi comunicare solo le documentazioni relative alla certificazione reddituale e ricevendo un diniego per le richieste inerenti alle informazioni contenute nell’anagrafe tributaria con la motivazione che “alla luce del mutato orientamento della giurisprudenza, con particolare riferimento alla sentenza del Consiglio di Stato n. 3461 pubblicata il 13 luglio 2017 (…) tali dati potranno essere resi dalla Direzione Regionale della Campania solo in base ad un’istanza di accesso proposta ai sensi del comb. disp. degli artt. 155-sexies disp. att. c.p.c. e 492-bis c.p.c., istanza che dovrà essere previamente autorizzata dal Tribunale competente”.
Pertanto, l’interessato adiva i giudici amministrativi per ottenere l’annullamento del provvedimento di diniego e la condanna dell’amministrazione al rilascio della documentazione. Il TAR accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendolo inammissibile solo in relazione alla richiesta di accedere “a tutta la ulteriore documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale riconducibile all’ex convivente” reputandola “genericamente formulata”.
Dunque, l’amministrazione resistente ha impugnato la sentenza per “error in judicando, in relazione alla violazione e falsa applicazione degli articoli 22 L. 241/90, art. 492 bis del c.p.c. e 155 quinquies e sexies disp. att. c.p.c.
La sezione quarta, stante il conflitto giurisprudenziale in seno al Consiglio di Stato, ha deferito il ricorso all’Adunanza plenaria con l’ordinanza in esame.
Pur non essendo la questione ancora stata risolta dall’Adunanza, appare di particolare interesse analizzare l’ordinanza di rimessione, in quanto in essa viene operata un’analisi puntuale dei due distinti orientamenti, sul più risalente dei quali si è basata l’amministrazione per formulare il rigetto dell’istanza di cui si è detto.
Il Consiglio di Stato rileva come l’adesione operata dalle amministrazioni all’orientamento riportato nella sentenza 3461/2017 orienti l’agire amministrativo in senso sempre sfavorevole ai cittadini e, ciò nonostante, le più recenti pronunce in senso contrario: sentenze 2472/2014, 5910/2019 e 5347/2019 (quest’ultima già commentata in questa newsletter).
Viene osservato come, nel caso concreto, il richiedete ricopra una posizione qualificata, in quanto ex convivente e padre esercente la responsabilità genitoriale sul figlio minorenne, e l’istanza era stata motivata con la necessità di tutelare e difendere, oltreché interessi giuridici propri, anche quelli del figlio. Essa era finalizzata “a dimostrare la complessiva capacità reddituale, patrimoniale e finanziaria dell’ex convivente e genitore anch’esso esercente la responsabilità genitoriale sul figlio, in modo da giungere […] ad una ripartizione giudiziale quanto più possibile giusta, equa e solidale delle risorse economiche del disciolto nucleo familiare tra gli ex conviventi, anche nell’interesse del figlio minorenne”.
Inoltre, per il Consiglio di Stato, appare oscura la ragione che ha spinto l’amministrazione a negare l’accesso ai documenti contenuti nell’anagrafe tributaria quando è stata immediatamente resa disponibile la documentazione reddituale e patrimoniale pur in assenza di autorizzazione da parte del Tribunale.
Infatti, l’amministrazione ha pacificamente qualificato tutti i documenti richiesti come “amministrativi” secondo la definizione data dagli artt. 22 e ss. della legge 241/1990; altrimenti avrebbe rigettato l’istanza per diversa ragione e non si sarebbe posto neppure il problema del contrasto giurisprudenziale, essendo indubbio che sono accessibili, con gli strumenti della l. 241/1990, solo atti e documenti “amministrativi”.
In sostanza, il Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la risoluzione di un quesito che è così riassumibile: il diritto di accesso è esercitabile indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria processualcivilistiche ed è esercitabile a prescindere dall’autorizzazione del giudice all’acquisizione di determinati documenti ed anche cumulativamente all’acquisizione secondo la normativa del codice di procedura o, al contrario, la predisposizione da parte dell’ordinamento di metodi “processuali” di acquisizione di atti e documenti amministrativi preclude l’azionabilità del rimedio di cui alla l. 241/1990?

Le sentenze cui si riconduce l’orientamento che afferma l’autonomia e l’indipendenza dei rimedi rinvengono la ratio dell’istituto dell’accesso agli atti “sia sull’esigenza di rendere l’amministrazione una ‘casa di vetro’ […] sia sull’esigenza di agevolare agli interessati di ottenere gli atti il cui esame consente di valutare se sia il caso di agire in giudizio”.

Indubbiamente, la disciplina processualistica è connotata da un certo grado di specialità, ma non a tal punto, secondo le sopracitate sentenze, da “giustificare la presenza di una deroga, al punto di rimettere alla positiva valutazione del giudice la reale conoscibilità di documentazione di rilievo e la concretizzazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale”.

La tutela dei diritti non avrebbe dunque, per il Consiglio di Stato, eguale garanzia dagli strumenti del codice di rito che rimettono “all’apprezzamento del giudice l’ingresso nel giudizio di documenti, di atti e di informazioni in possesso della Pubblica Amministrazione”.

Se si ragionasse in senso contrario, riconoscere un tale potere istruttorio al giudice ordinario produrrebbe una compressione della disciplina generale sull’accesso non giustificata da alcuna disposizione normativa espressa; nell’ordinanza viene rilevato come tal cosa risulterebbe essere ancora più grave nei procedimenti in materia di famiglia, ove sovente la parte agisce anche nell’interesse di minori.

Pertanto, secondo l’orientamento prevalente in seno alla giustizia amministrativa, tra le due fattispecie sussisterebbe un rapporto di concorrenza e complementarità.

In senso contrario, l’ordinanza di rimessione riporta in larga parte le argomentazioni contenute nella sentenza n. 3461/2017. In essa si afferma come il diritto alla tutela giurisdizionale, per il tramite dell’acquisizione di documenti amministrativi, è assicurato dalle disposizioni del codice di rito, non sussistendo dunque alcun vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale.

Al contrario imporre l’acquisizione dei documenti al processo con gli strumenti del codice di rito garantirebbe maggiormente il rispetto del diritto di difesa della controparte che potrebbe contestare nel processo e con gli strumenti a ciò demandati l’esigenza di produzione dei documenti richiesti, non a caso “le norme processualcivilistiche sottopongono alla valutazione del giudice la esibizione di documenti ordinata al terzo […] ciò perché l’acquisizione di prove documentali non può che avvenire se non nella sede tipica processuale e nel rispetto del principio del contraddittorio”.

Tale impostazione presta però il fianco ad alcune critiche.
In primis il soggetto cui riferiscono i documenti è tutelato dalla procedura prevista dalla legge n. 241/1990, in quanto l’istanza deve essergli notifica ed esso, in qualità di controinteressato, ha facoltà di inviare all’amministrazione interrogata scritti difensivi atti a dimostrare l’illegittimità della richiesta, anche sotto il profilo della non necessità di essi ai fini difensivi.
Inoltre, appare di difficile comprensione la differenza di disciplina che si applicherebbe a due soggetti qualora uno redigesse l’istanza prima di instaurare il giudizio, mentre l’altro lo facesse solo in seguito.
Infine, appare opportuno rilevare come l’adesione a quest’ultimo orientamento svuoterebbe non poco di significato la previsione dell’art. 24, settimo comma, l. 241/1990, secondo la quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, consentendone l’applicazione solo in ipotesi in cui il diritto o l’interesse in questione non sia ancora stato azionato.
Seguendo questa linea interpretativa si giungerebbe ad una situazione in cui i soggetti potrebbero preferire “attendere” l’esito dell’istanza di accesso prima di azionare la situazione giuridica soggettiva in giudizio per non “bruciarsi” lo strumento amministrativo di accesso, finendo così per comprimere in concreto la loro facoltà di agire in giudizio per la propria tutela, come garantito dall’art. 24 Cost.
L’effetto potenzialmente deflattivo del processo, che lo strumento previsto dalla l. n. 241/1990 realizza, non verrebbe comunque necessariamente meno, in quanto, in situazioni “dubbie”, l’interessato ragionevolmente tenterebbe un’istanza “esplorativa” prima di instaurare un processo.

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