Eutanasia e sedazione profonda: una differenza etica e giuridica

Il caso riguarda un medico anestesista, imputato dei reati di cui agli artt. 575, 576 n.1, 110, 489 e 491 c.p. (omicidio volontario del fratello e formazione ed uso di falso testamento olografo).
Durante il giudizio di accertamento della responsabilità penale, l’indagata aveva chiesto la revoca del divieto di espatrio, adottato con Ordinanza dal GIP del Tribunale di La Spezia il 20.02.2017 per scongiurare “il pericolo di fuga” all’estero.
Con sentenza n. 26899/2018 la Corte di Cassazione, ha respinto il ricorso e confermato la misura cautelare.
In motivazione la Corte ha valorizzato da un lato “la piena consapevolezza e chiara e specifica volontà dell’indagata di provocare con non irrilevante anticipo la morte del fratello, non informato e non consenziente”, dall’altro i sospetti di analoghi interventi praticati in altri casi, nonché i legami con l’estero ove la dottoressa risulta aver svolto dal 2000 al 2015 l’attività professionale, acquisendo, fra l’altro, familiarità con l’uso di tecniche volte a praticare l’eutanasia.
Al medico anestesista - evidenzia la Cassazione - era contestata e in corso di accertamento una condotta di omicidio volontario, non quindi di eutanasia attiva, né sicuramente di sedazione palliativa profonda (attività quest’ultima in sé lecita e regolata dalla legge n. 38/2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” in G.U. n. 65 del 19.03.2010).
La sedazione profonda, per la Corte, “è ricompresa nella medicina palliativa e fa ricorso alla somministrazione intenzionale di farmaci, nella dose necessaria richiesta, per ridurre, fino ad annullare, la coscienza del paziente, per alleviarlo da sintomi fisici o psichici intollerabili nelle condizioni di imminenza della morte con prognosi di ore o poco più per malattia inguaribile in stato avanzato e previo consenso informato”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la medicina palliativa comprende tutti gli interventi volti a migliorare la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie in presenza di malattie inguaribili, anche mediante la prevenzione e il sollievo del dolore e delle sofferenze.
Si tratta di interventi “alternativi alla cura della malattia” (non più possibile), che prevedono l’attivazione delle cure di fine vita (end-of-life palliative care) in cui è fondamentale il controllo del dolore e degli altri sintomi e più in generale dei problemi psicologici, sociali e spirituali del malato.

Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), nel parere reso il 29 gennaio 2016, utilizza l’espressione ‘sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte’, per indicare la procedura di somministrazione di farmaci ipnotici per annullare la coscienza del paziente “allo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo, senza controllo, refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile per il paziente, in condizione di imminenza della morte’.
Il CNB ritiene indispensabile la verifica dell’effettiva refrattarietà del sintomo, la proporzionalità e il monitoraggio dell’uso dei farmaci, la documentazione delle procedure nella cartella clinica.
E individua quali condizioni indispensabili per l’attuazione della sedazione profonda il consenso informato del paziente, la malattia inguaribile in uno stadio avanzato, la morte imminente (generalmente attesa entro poche ore o pochi giorni), la presenza di uno o più sintomi refrattari o di eventi acuti terminali con sofferenza intollerabile.
La sedazione profonda è un’attività lecita perché è un atto medico terapeutico, con l’esclusiva finalità di alleviare la sofferenza del morente attraverso il controllo dei sintomi refrattari.
Il “processo del morire” prosegue il suo naturale corso: la letteratura medica conferma che la durata media della sopravvivenza dei pazienti sedati in fase terminale non differisce da quella dei pazienti non sedati. Anzi a volte il dolore acuto non trattato limita molto la possibilità di sopravvivenza.
In ogni caso la somministrazione di sedativi o medicinali antalgici/ipnotici tutela sempre la dignità del morente anche in presenza del rischio, raro ma possibile, di abbreviazione della vita.

Per la Suprema Corte l’eutanasia consiste invece “in un'azione od omissione che ex se procura la morte, allo scopo di porre fine a un dolore”.
Si tratta di una definizione incompleta ed in parte fuorviante.
Nell’ordinamento giuridico italiano non si rinviene una definizione espressa di eutanasia.
Nella legislazione Olandese (Legge n.137 del 10 aprile 2001 “Riforma delle procedure per porre fine alla vita su richiesta e per il suicidio assistito”) essa viene sostanzialmente descritta come un intervento medico attivo, effettuato per porre termine intenzionalmente alla vita del paziente su sua esplicita richiesta.
Nella letteratura medica italiana e internazionale l’eutanasia è intesa come volontaria somministrazione di farmaci da parte del medico (o di altro soggetto) con l’unico scopo di provocare con il consenso, anzi a seguito di richiesta esplicita e diretta, del paziente la sua morte immediata ed indolore.
È quindi essenziale, per escludere altre ipotesi delittuose (omicidio volontario), valorizzare ed includere nella condotta la volontà attiva del paziente, che richiede l’intervento eutanasico al terzo, non potendo provvedervi direttamente.
Anche la tradizionale distinzione - richiamata dalla Corte - tra eutanasia attiva e eutanasia passiva (astensione da qualsiasi trattamento terapeutico) va oggi rimeditata alla luce dei principi posti dalla legge n. 219/2017, non essendo più lecito per il medico mantenere in vita un paziente contro la sua volontà espressa e consapevole.
In altre parole, il medico che si astiene dal somministrare o dal proseguire un trattamento sanitario, anche se salvavita, rifiutato dal paziente non potrà essere ritenuto penalmente responsabile della sua morte.
Se poi tale trattamento è futile o inappropriato, l’astensione del medico è un obbligo giuridico, anche a fronte di una richiesta del malato di segno contrario.
Ne conseguirebbe (in linea con l’impostazione della medicina e giurisprudenza internazionale) la configurabilità della sola eutanasia attiva.
In ogni caso è evidente la diversità (per finalità, esiti e procedura) delle due condotte: la sedazione profonda è un atto medico di cura palliativa, che mira a controllare un sintomo refrattario ed ad alleviare la sofferenza, senza incidere volutamente sulla durata della vita, mentre l’eutanasia è un’azione diretta a cagionare la morte immediata della persona, spesso raggiunga attraverso la somministrazione di un farmaco letale (e non sedativo, antalgico o ipnotico).  
L’eutanasia attiva, nel nostro ordinamento, è prevista e punita dagli artt. 579 e 580 del codice penale.
Nel caso in cui la condotta non sia accompagnata dalla richiesta consapevole del morente, si configura invece un’ipotesi di omicidio volontario.
Questa, infatti, l’imputazione del medico anestesista nel caso affrontato dalla Cassazione, perché il fratello era “non informato e non consenziente”.
Va infine sottolineato che la letteratura medica evidenzia come le richieste di eutanasia e di suicidio assistito dal medico sono spesso la risultante di situazioni complesse, in cui giocano un ruolo importante fattori personali, psicologici, sociali, culturali ed economici. E sono spesso modificate proprio da quanto il medico riesce ad offrire al paziente in termini di cure palliative, soprattutto se specializzate.
L’autodeterminazione terapeutica regolata dalla legge n. 219/2017 (garantita dall’obbligo informativo/ comunicativo dei sanitari, dalla necessità del consenso del paziente, dalla possibilità di redigere le DAT e di pianificare la cura,) e la medicina palliativa sono oggi una risposta etico-giuridica al timore dei pazienti che la loro vita venga inutilmente prorogata e/o di morire tra sofferenze insopportabili.

 

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