Protezione umanitaria: le nuove regole non si applicano ai procedimenti pendenti

Il caso riguarda un cittadino bengalese che, giunto in Italia nell’agosto 2015, inoltra domanda di protezione internazionale, chiedendo anzitutto il riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine di protezione sussidiaria (cfr. d.lgs. 251/2007) o di protezione umanitaria (cfr. art. 5 del d.lgs. 286/1998).

I diritti di protezione internazionale e le relative procedure operano nel nostro ordinamento interno in virtù dell’art. 10 comma terzo Cost. (“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”) e delle Convenzioni internazionali (di Ginevra del 28 luglio 1951 e successivi protocolli) e dei Trattati sottoscritti e ratificati dall’Italia in ambito europeo (Convenzione di Dublino del 1990, Trattato di Maastricht del 1993, Trattato di Amsterdam del 1999, Trattato di Nizza del 2001, Trattato di Lisbona 2009, Programma di Stoccolma del 2012) con relativi regolamenti (Regolamento di Dublino UE n. 604/2013) e direttive esplicative.

La Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Roma con decisione datata 07.06.2016 rigettava le domande proposte dal cittadino bengalese. Avverso tale provvedimento amministrativo lo straniero ricorreva ex art. 35 D. Lgs. 25/2008 e art. 19 D. Lgs.n. 150/2011 al Tribunale di Firenze (Sezione Protezione internazionale).

Il Tribunale con ordinanza in data 23 ottobre 2018  conferma la decisione di rigetto della domanda di asilo e della domanda di protezione sussidiaria (che ai sensi dell’art. 2 lett. g) del d.lgs. 251/2007 viene concessa al cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma in relazione al quale sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno, come definito dall’art. 14 del d.lgs. 251/2007).

Ma riconosce, in riforma della decisione amministrativa, il diritto alla protezione umanitaria.

L’art. 5 sesto comma del D. Lgs. n. 286/1998 prevede che

il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.

L’art. 19 dello stesso Decreto prescrive al comma primo che “in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.”.

Il giudice adito precisa che la protezione per gravi motivi umanitari appartiene al genus della protezione dello straniero, perché ha ad oggetto i limiti all’esercizio del potere nazionale di rimpatrio coattivo, ma non trova fonte nella disciplina sovranazionale della protezione internazionale, connotandosi come strumento nazionale di protezione.

Questo tipo di tutela non rappresenta uno status, come il rifugio e la protezione sussidiaria, pur consentendo una permanenza temporanea sul territorio nazionale mediante la concessione (fino ad ora) del permesso di soggiorno biennale previsto dall’art. 5 c. 6, del d.lgs. 286/1998.

Prima della recente riforma i seri motivi umanitari sono stati interpretati come “un catalogo aperto” (cfr. Corte di Cassazione n. 4455/2018). Ovviamente, se il legislatore italiano può riconoscere allo straniero il diritto a essere accolto sul territorio nazionale, può anche autonomamente definire i criteri ed i presupposti per la concessione del beneficio temporaneo.

La possibilità di concedere un permesso umanitario integra, infatti, una clausola di salvaguardia del sistema,in grado di valorizzare particolari condizioni di vulnerabilità dei soggetti richiedenti asilo, passibili di essere aggravate dal respingimento, e legate, ad esempio, a motivi di salute (con rischio di perdita delle opportunità di cura garantite in Italia) o di età, o anche relative all’esposizione personale alla grave instabilità politica e all’insicurezza del Paese di origine, ovvero all’insufficiente rispetto dei diritti umani, in condizioni critiche dovute a carestie, disastri naturali o ambientali ecc.

Nel riconoscere la protezione umanitaria e la trasmissione degli atti al Questore competente per il rilascio di un permesso di soggiorno, il Tribunale adito affronta il problema dell’applicabilità (o meglio dell’inapplicabilità) al caso deciso delle norme di cui al recente d.l. n. 113/2018, entrate in vigore il 5.10.2018.

Il decreto ha riformato l’istituto della protezione umanitaria, restringendone l’operatività a casi speciali espressamente previsti. Si tratta quindi di norme di natura sostanziale: in particolare è stato abrogato il permesso di soggiorno per motivi umanitari ed è stata introdotta una disciplina di casi speciali, espressamente individuati, per il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo per esigenze di carattere umanitario (atti di particolare valore civile, grave sfruttamento lavorativo, violenza domestica, eccezionali calamità naturali, motivi di salute di eccezionale gravità).

Evidenzia il giudice che la successione di norme giuridiche nel tempo segue il principio dell'irretroattività (art. 11 Disposizioni sulla legge in generale del c.c.), per il quale

la norma sopravvenuta è inapplicabile, “oltre che ai rapporti giuridici già esauriti, anche a quelli ancora in vita alla data della sua entrata in vigore, ove tale applicazione si traduca nel disconoscimento di effetti già verificatisi ad opera del pregresso fatto generatore del rapporto, ovvero in una modifica della disciplina giuridica del fatto stesso” (cfr. Cass. civ. 14-02-2017 n. 3845).

L’irretroattività assurge a principio costituzionale inderogabile solo in materia penale.
Tuttavia, in assenza di una normativa transitoria che espliciti la deroga al principio, l’interprete deve attenervisi.

Il decreto in commento da un lato contiene la modifica della disciplina del fatto generatore del diritto, dall’altro non prevede alcuna normativa transitoria, divenendo applicabile quindi solo alle fattispecie e situazioni soggettive sorte dopo l’entrata in vigore.

Diverso, come noto, è il principio che regola l’operatività delle norme procedurali (tempus regit actum) che trovano invece (salva diversa disposizione) immediata applicazione ai procedimenti pendenti, incidendo solo sul contenuto di poteri e facoltà strumentali alla tutela del diritto, ontologicamente e funzionalmente distinti da esso e non ancora consumati se il procedimento non si è perfezionato (cfr. Cass. Civ. 27-03-2017, n. 7788).

 

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